La tutela della salute può giustificare il rifiuto della consegna del ricercato
Corte giust., sentenza 18 aprile 2023, causa C-699/21, EDL
La protection de la santé peut justifier le refus de remise de la personne recherchée
Health Protection May Justify the Refusal of the Requested Person
Con la sentenza pubblicata il 18 aprile 2023 nella causa C-699/21 (EDL), la Corte di giustizia si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale promosso dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 216/2021 (emessa lo stesso giorno dell’ordinanza “gemella” n. 217/2021): il quesito formulato dalla Consulta concerneva l’interpretazione dell’art. 1, par. 3, decisione-quadro 2002/584/GAI (in breve, d.q. MAE), alla luce degli artt. 3, 4 e 35 CdfUE, nell’(auspicato) senso di consentire la possibilità di sospendere ed eventualmente rifiutare la consegna di un soggetto destinatario di un MAE qualora il ricercato, in caso di esecuzione, possa essere esposto al rischio di un grave pregiudizio per la propria salute (sull’ordinanza di rinvio, cfr. C. Amalfitano, M. Aranci, 2022; A. Damato, 2022; S. Montaldo, S. Giudici, 2022).
Prima di esaminare i contenuti della sentenza – e di apprezzarne i principali profili di interesse – è opportuno richiamare brevemente la vicenda processuale che ha condotto al rinvio pregiudiziale.
Nel settembre 2019, l’autorità giudiziaria croata ha emesso un MAE processuale nei confronti di una persona residente in Italia. Chiamata a pronunciarsi sulla richiesta di consegna, la Corte d’appello di Milano (con ordinanza del 17 settembre 2020) ha rilevato, all’esito di un’apposita perizia, che l’interessato era affetto da un disturbo psicotico, caratterizzato da forte rischio anticonservativo, tale per cui l’esecuzione del MAE avrebbe comportato un concreto e grave pericolo di compromissione della salute. Poiché la legge n. 69/2005 non prevedeva un motivo di rifiuto della consegna a fronte di tali circostanze (come ribadito anche dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 7489/2017), il collegio milanese si è rivolto alla Corte costituzionale, sollecitando una dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge nazionale, nella parte in cui non comprendeva un motivo di rifiuto della consegna in caso di rischio per la salute del ricercato.
Il giudice delle leggi – con la citata ordinanza n. 216/21 – ha rilevato che si imponeva prioritariamente un’esigenza (non adeguatamente esaminato dal rimettente) di interpretazione di alcune disposizioni del diritto dell’Unione europea, poiché la citata legge 69/2005 costituisce, come noto, la trasposizione, in sede nazionale, della d.q. MAE. Infatti, ad avviso della Consulta, compete alle istituzioni sovranazionali fissare gli standard di tutela dei diritti fondamentali, affinché si possa assicurare un adeguato bilanciamento tra le garanzie individuali e le esigenze di uniforme applicazione dei meccanismi di reciproco riconoscimento. Né, secondo il giudice delle leggi, potrebbe competere alla singola autorità giudiziaria la scelta di rifiutare la consegna sulla base di clausole generali (quali quelle contenute negli artt. 1 e 2, legge 69/2005), poiché tale opzione si pone in contrasto con il principio di tassatività dei motivi di rifiuto.
Operate queste premesse, la Consulta ha evidenziato la necessità di assicurare piena tutela al diritto alla salute in caso di esecuzione di un MAE e, in assenza di un espresso motivo ostativo ad hoc nella decisione-quadro (ragione per cui il giudice delle leggi pare persino evocare un profilo di invalidità del menzionato atto), è stata prospettata l’adozione – anche per questa fattispecie – del modello elaborato dalla Corte di giustizia a partire dalla ormai celebre sentenza Aranyosi e Căldăraru (con riferimento al rischio di esposizione a trattamenti inumani) e poi esteso anche alle ipotesi di violazione dell’art. 47 CdfUE (cfr. sentenze Celmer e Openbaar Ministerie).
La Grande Sezione della Corte di giustizia, con una motivazione che si apprezza per uno sviluppo sintetico, è pervenuta all’esito suggerito dalla Consulta e già anticipato, di fatto, dall’Avvocato generale nelle proprie conclusioni dello scorso dicembre. Secondo la Corte di giustizia, qualora l’autorità giudiziaria dello Stato richiesto ritenga sussistenti motivi seri e comprovati per ritenere che, in caso di consegna, la persona ricercata sia sottoposta a un rischio di danno grave alla sua salute, l’esecuzione può essere temporaneamente sospesa ai sensi dell’art. 23, par. 4, d.q. MAE. Allo stesso tempo, dev’essere richiesto l’invio di adeguate informazioni, da parte del giudice emittente, in merito alle condizioni dell’eventuale detenzione (o di esecuzione di altre misure cautelari) di tale persona e alla compatibilità con le esigenze di tutela della salute del ricercato. In caso di adeguate garanzie, il MAE deve essere eseguito, con eventuale differimento del termine di consegna, purché l’esecuzione possa avvenire in un lasso di tempo ragionevole. Al contrario, soltanto qualora si ritenga impossibile che, entro un termine adeguato, possa essere eseguita la consegna in condizioni compatibili con la tutela della salute del ricercato, l’autorità giudiziaria dello Stato richiesto potrà rifiutare l’esecuzione del MAE.
A questa decisione il giudice lussemburghese è pervenuto dopo aver premesso alcune considerazioni ormai ben consolidate nella giurisprudenza in tema di MAE e, più in generale, con riferimento agli strumenti elaborati per il reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie. La Corte ha infatti ribadito che, per il principio della fiducia reciproca in tema di SLSG, gli Stati membri devono presumere il comune rispetto del diritto dell’Unione europea e, quindi, che ogni Paese garantisca i diritti fondamentali, come consacrati a livello sovranazionale (punti 30-31). In applicazione di queste coordinate, si è confermato che il rifiuto di esecuzione di un MAE costituisce un’eccezione e non può avvenire se non a fronte di uno dei motivi tassativamente elencati dalla decisione-quadro (punto 34). Tuttavia, poiché la consegna di un soggetto colpito da gravi patologie può comportare il rischio di morte o comunque di esposizione a un grave e irreversibile deterioramento delle condizioni di salute (in violazione dell’art. 4 CdfUE), il giudice dell’esecuzione deve prioritariamente valutare il differimento della consegna ai sensi dell’art. 23, par. 4, d.q. MAE (punti 36 ss.). Sulla base dell’altrettanto consolidato principio di leale collaborazione, deve a questo punto instaurarsi un dialogo diretto tra le due autorità giudiziarie, per verificare che, in caso di consegna e di conseguente esercizio dell’azione penale, sia scongiurato il prospettato rischio di lesione dell’integrità fisica del ricercato. Qualora le informazioni ricevute dallo Stato richiedente facciano ritenere che la consegna possa essere effettuata in tempi ragionevoli e senza compromissione delle condizioni di salute, il MAE deve essere eseguito. In caso contrario, come già anticipato, la consegna – in via eccezionale – può essere negata, qualora si dovesse ritenere che, entro un termine adeguato, sia impossibile procedere all’esecuzione del MAE in condizioni tali da assicurare che non si verifichino seri e comprovati rischi per la salute dell’interessato.
La pronuncia in esame presenta alcuni profili di interesse che, seppur in via sintetica, meritano di essere evidenziati.
In primo luogo, si tratta di una sentenza che, una volta ancora, rivela l’efficacia del metodo dialogico instauratosi nel rapporto tra la Corte costituzionale e il giudice del Kirchberg, specie con riferimento alla possibilità di definire standard comuni di tutela dei diritti fondamentali. Il rinvio formulato con l’ordinanza n. 216/21 costituisce, in ordine di tempo, il quinto quesito pregiudiziale rivolto alla Corte di giustizia dalla Consulta nei giudizi di legittimità costituzionale, dopo il famoso “cambio di rotta” risalente, ormai, a un decennio fa (ordinanza n. 207/2013). Peraltro, ancora una volta – dopo quanto accaduto con l’ordinanza n. 117/2019 – il rinvio pregiudiziale non ha sollecitato soltanto l’interpretazione, bensì anche uno scrutinio di validità delle disposizioni del diritto derivato dell’Unione europea, prospettandone l’incompatibilità con i diritti fondamentali consacrati dalla CdfUE. Questo modello, che risente evidentemente dell’assetto consolidatosi, negli ultimi anni, in tema di c.d. doppia pregiudizialità (cfr., tra i contributi più recenti, C. Amalfitano, L. Cecchetti, 2022; G. Repetto, 2022; il Quaderno n. 11 a cura della S.S.M.), ha il pregio di consentire una valutazione di legittimità costituzionale che da un lato tiene conto della corretta interpretazione del diritto dell’Unione europea e, dall’altro lato, produce effetti erga omnes nell’ordinamento nazionale (cfr., in tema, Corte giust., sentenza nella causa C-350/20, punto 40, nella pronuncia resa a seguito dell’ordinanza n. 182/2020 della Corte costituzionale). Si tratta di un meccanismo che, seppur al costo di tempi non particolarmente celeri (di fatto, tra l’ordinanza della Corte d’appello di Milano e la definizione dell’incidente di costituzionalità intercorreranno almeno tre anni), consente di definire livelli di protezione dei diritti fondamentali quanto più possibile omogenei e allineati non solo nel singolo ordinamento ma, grazie alla pronuncia resa in via pregiudiziale dal giudice lussemburghese, comuni per tutti gli altri Stati membri.
Quanto al merito della sentenza della Corte di giustizia, si tratta di un ulteriore passo nel percorso di contemperamento delle esigenze di tutela dei diritti fondamentali con le necessità di assicurare effettività ai meccanismi di reciproco riconoscimento. In questo caso, il giudice lussemburghese, pur riprendendo le coordinate del test introdotto dalle sentenze Aranyosi e Căldăraru e Celmer, sembra superare uno degli elementi che, in quelle ipotesi, l’autorità giudiziaria richiesta doveva valutare, ossia l’esistenza di una carenza sistemica (quanto alla tutela del diritto fondamentale di volta in volta rilevante) nell’ordinamento dello Stato emittente. Infatti, nella pronuncia qui esaminata, non vi è traccia di una valutazione di questa natura, essendo necessario (e sufficiente) scrutinare soltanto il rischio di un vulnus del diritto fondamentale nel caso di specie.
Anche in questo caso – al pari delle precedenti pronunce seguite alle note Aranyosi e Căldăraru e Celmer – la Corte di giustizia assicura una tutela in concreto dei diritti dell’individuo senza intaccare (almeno formalmente) il principio di tipicità dei motivi ostativi di rifiuto, uno dei perni su cui si costruiscono gli strumenti di reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie. Invero, appare ormai sempre più evidente la necessità di un intervento legislativo (e non solo pretorio) sul tessuto normativo della d.q. MAE, in modo tale che il rapporto tra tutela dei diritti fondamentali ed esecuzione del MAE possa trovare una codificazione uniforme e pienamente coerente con la tutela dei diritti fondamentali consacrati dalla CdfUE.