L’onere della prova e le sentenze interlocutorie: considerazioni in relazione alle conclusioni dell’avvocato generale Emiliou nella causa C-601/21, Commissione c. Polonia
La charge de la preuve et les arrêts interlocutoires : considérations à propos des conclusions de l’avocat général Emiliou dans l’affaire C-601/21, Commission c. Pologne
Burden of proof and interim judgments: some reflections on the Opinion of Advocate General Emiliou in case C-601/21, Commission v. Poland
Premessa
La direttiva 2014/24/UE disciplina le procedure per gli appalti indetti dalle pubbliche amministrazioni. La Commissione, con il suo ricorso ex art. 258 TFUE del settembre 2021, contesta alla Polonia un errato recepimento della direttiva 2014/24/UE, avendo escluso dall’ambito di applicazione della stessa gli appalti per la produzione di una – pare opportuno segnalarlo sin da ora, “ampia e diversificata” – serie di documenti pubblici. Infatti, tali appalti sono stati affidati direttamente alla Polska Wytwórna Papierów Wartościowych, un’impresa pubblica con sede in Polonia e detenuta interamente dallo Stato.
Nelle conclusioni del 2 marzo 2023 dell’avvocato generale Emiliou, si rinvengono una serie di interessanti osservazioni sull’onere della prova e sulle sentenze interlocutorie, che meritano di essere segnalate al lettore. Prima di illustrare le considerazioni dell’avvocato generale, si ritiene utile richiamare brevemente la giurisprudenza rilevante.
In conformità con il tradizionale e consolidato principio “affirmanti incubit probatio”, spetta alla Commissione, nei procedimenti di infrazione, provare che una certa condotta sia in contrasto con le norme dei trattati. Sul punto, la Corte di giustizia è graniticamente orientata: nell’ambito di un procedimento per inadempimento, spetta alla Commissione dimostrare l’esistenza dell’asserito inadempimento e fornire alla Corte tutti gli elementi necessari alla verifica da parte di quest’ultima dell’esistenza di detto inadempimento, senza che la Commissione possa basarsi su alcuna presunzione (si v., recentemente, C-559/19, Commissione c. Spagna, punto 46). Una volta forniti tutti gli elementi richiesti, spetterà poi allo Stato membro contestare in maniera compiuta e dettagliata gli elementi presentati, al fine di giustificare la propria condotta (ibid., punto 47). Alla luce di ciò, nei casi inerenti le “quattro libertà”, spetta alla Commissione provare che la normativa nazionale costituisca un ostacolo alla libera circolazione, mentre sarà onere dello Stato membro che invoca una eccezione, dimostrare che questa misura sia necessaria e proporzionata. Tale onere probatorio in capo allo Stato membro non può però estendersi sino a pretendere la dimostrazione che nessun altro possibile provvedimento avrebbe permesso la realizzazione dell’obiettivo alle stesse condizioni: ciò significa che prima di adottare eventuali deroghe al diritto dell’Unione, gli Stati membri debbano esaminare attentamente la possibilità di fare ricorso a misure meno restrittive, senza però pretendere che essi individuino ciascuna possibile misura alternativa in astratto, obbligandolo a spiegarne compiutamente i motivi dello scarto (v., in tal senso, C‑209/18, Commissione c. Austria, punto 82; e C‑28/09, Commissione c. Austria, punto 140).
Tale obbligo giuridico di provare quanto sostenuto, tanto per la Commissione quanto per lo Stato membro resistente, non può ovviamente estendersi sino a richiedere una probatio diabolica (v. conclusioni avvocato generale Wathelet, C‑616/15, Commissione c. Germania, punto 125). Dall’altro lato, ovviamente, strategie difensive caratterizzate da mere considerazioni, particolarmente vaghe e non supportate da prove tangibili, sono tenute in scarsa considerazione dalla Corte (v. conclusioni avvocato generale Mazák, C‑518/06, Commissione c. Italia, punti 32 e 87).
In tale contesto, si inserisce la presente causa.
Onere della prova e sentenze interlocutorie
Alla fine del suo esame del ricorso, l’avvocato generale giunge alla conclusione che il motivo di ricorso introdotto dalla Commissione è in parte fondato ed in parte infondato. Stando così le cose, la questione cruciale diventa – secondo l’avvocato generale – di stabilire in quale misura il ricorso debba essere accolto e in quale misura esso debba essere respinto. A tal proposito, egli nota che entrambe le parti hanno sviluppato i loro argomenti in modo assai generale (se non generico), nonostante la normativa nazionale contestata escluda dalle procedure di appalto pubblico – come già accennato – la produzione di una serie alquanto ampia e diversificata di documenti. Tuttavia, interpellate in udienza sulla questione se ritenessero di aver tenuto debitamente conto delle caratteristiche specifiche di ciascun documento, entrambe le parti hanno sostenuto di non essere tenute a farlo. Il governo polacco ha ribadito che tutti i documenti di cui trattasi rivestono un’importanza cruciale per la tutela dei suoi interessi di sicurezza e che, di conseguenza, potevano tutti essere esclusi da procedure di appalto. Da parte sua, la Commissione ha dichiarato che spettava alla parte resistente spiegare alla Corte le specificità di ciascun documento. Nelle sue conclusioni l’avvocato generale non nasconde la sua frustrazione sul punto, ritenendosi non in grado di «tracciare una linea di demarcazione» (par. 108) precisa tra i documenti che possono e quelli che non possono essere legittimamente esclusi dalle norme in materia di appalti pubblici. È in questo contesto che l’avvocato generale sviluppa due serie di considerazioni di grande interesse.
In primo luogo, l’avvocato generale nota che, di regola, nel contesto di un ricorso diretto, l’omessa presentazione, ad opera di una parte, di elementi a sostegno delle proprie conclusioni non dà adito a problemi procedurali di rilievo: i principi in materia di allocazione dell’onere della prova – sopra richiamati – possono guidare la Corte nel pronunciarsi sulle varie questioni controverse. Nella presente causa, tuttavia, gli è particolarmente difficile individuare, per quanto concerne taluni aspetti della controversia, la parte sulla quale incombeva l’onere di provare (o confutare) un determinato fatto. Egli nota che, in questa specie di “ping pong procedurale”, «in cui l’onere probatorio si sposta ogniqualvolta una parte abbia dimostrato la propria posizione in modo plausibile, può, talora, essere difficile decidere chi abbia fatto punto, metaforicamente parlando» (par. 109). Inoltre, egli ammette di provare «un certo disagio nel suggerire alla Corte di risolvere la presente controversia sulla base di un’applicazione automatica (e dunque, oserei dire, cieca) delle norme in materia di onere della prova» (par. 110). In effetti, le conseguenze potenziali che possono derivare, per uno Stato membro, da una sentenza ad esso sfavorevole emessa ai sensi degli artt. 258 e 259 TFUE sono notevoli: (i) tale Stato membro sarà tenuto a modificare la misura nazionale controversa, indipendentemente dalla questione se, con una migliore difesa nel procedimento, esso sarebbe stato in grado di dimostrare che tale misura era effettivamente conforme al diritto dell’Unione, e (ii) l’omessa modifica della misura nazionale controversa potrebbe esporre tale Stato membro a sanzioni pecuniarie e ad azioni di responsabilità. Alla luce di ciò, l’avvocato generale sembra suggerire un’applicazione “souple” dei principi dell’onere della prova nei giudizi per inadempimento: «qualora non sia completamente chiaro quale sia il soggetto sul quale gravava l’onere della prova, poiché sembra che entrambe le parti siano responsabili dell’incompletezza del fascicolo, sarebbe un approccio ragionevole, da parte della Corte, evitare di pronunciarsi sulle questioni che non sono strettamente indispensabili al fine di decidere la controversia» (par. 114).
In secondo luogo, sostiene l’avvocato generale che, in casi di quadro probatorio non chiaro, la Corte potrebbe (recuperando una tipologia di decisioni che sembra oramai caduta in desuetudine dopo gli anni ‘80) ricorrere ad una sentenza interlocutoria. Si tratta di decisioni adottate dalla Corte in taluni procedimenti – come ad es. nella famosa causa 170/78, Commissione c. Regno Unito (“wine and beer”) – in cui ha ritenuto che le parti non avessero fornito informazioni sufficientemente accurate al fine di valutare correttamente tutte le questioni sottoposte al suo vaglio. Mediante tali sentenze, la Corte ha ingiunto alle parti di riesaminare alcune questioni, alla luce però delle indicazioni fornite nella sentenza interlocutoria, e di riferire alla stessa in un determinato termine decorso il quale, se le parti non avessero trovato un accordo, la Corte avrebbe pronunciato sentenza definitiva.
È quindi degno di nota il suggerimento avanzato dall’avvocato generale Emiliou nelle proprie conclusioni, atto a riconsiderare il possibile utilizzo di tale tipo di pronunce anche se, nella causa di specie, lo stesso opti per suggerire alla corte una sentenza (per così dire, “classica”) di condanna parziale, ritenendo che fosse possibile includere nella motivazione delle indicazioni sufficienti perché il governo polacco possa adeguare la propria normativa interna alle disposizioni della direttiva 2014/24/UE.