L’ordinanza n. 29 del 2024: un nuovo rinvio pregiudiziale sul “cammino comunitario” della Corte costituzionale

Corte cost., ordinanza 27 febbraio 2024, n. 29

Ordonnance n. 29 du 2024: un nouveau renvoi préjudiciel dans le “marche communautaire” de la Cour constitutionnelle

Order No. 29 of 2024: a new preliminary reference on the “Community path” of the Italian Constitutional Court

Introduzione

Lontani sono i tempi in cui la Corte costituzionale affermava che in essa «non è ravvisabile quella “giurisdizione nazionale” alla quale fa riferimento l’art. 177 del trattato istitutivo della Comunità Economica Europea» (ordinanza n. 536 del 1995). Dapprima, il dialogo in via pregiudiziale con la Corte di Lussemburgo si è aperto nei giudizi in via principale, dove la Consulta è unico giudice (ordinanza 15 marzo 2008, n. 103). In seguito, con l’ordinanza 18 luglio 2013, n. 207 è stato sollevato il primo rinvio pregiudiziale anche nei giudizi di costituzionalità in via incidentale (Mascolo e a.).

Oggi sul “cammino comunitario” (P. Barile, Il cammino comunitario della Corte, in Giurisprudenza costituzionale, 1973, p. 2401 ss.), si innesta una nuova occasione di dialogo con l’ordinanza 27 febbraio 2024, n. 29, mediante la quale la Corte costituzionale interroga la Corte di giustizia sulla “compatibilità comunitaria” della normativa nazionale che esclude i cittadini extracomunitari, muniti di permesso unico, dal godimento dell’assegno sociale.

Premessa una breve ricostruzione degli episodi di dialogo pregiudiziale (e anche di conflitto) che sino ad oggi hanno scandito le relazioni tra la Consulta e i giudici del Kirchberg, oggetto di attenzione sarà la questione d’interpretazione del diritto dell’Unione europea alla base dell’ordinanza n. 29 del 2024, la quale consente sia di apprezzare la delicatezza della materia coinvolta, sia di formulare alcune considerazioni sui rapporti tra giudice comune, Corte costituzionale e Corte di giustizia alla luce del modello sorto con la sentenza n. 269 del 2017.

Il dialogo tra Corte costituzionale e Corte di giustizia da Taricco al “modello 269 temperato”

Dopo “l’apertura” avvenuta con le già menzionate ordinanze nn. 103 del 2008 e 207 del 2013, la Corte costituzionale ha utilizzato l’art. 267 TFUE per minacciare l’attivazione dei controlimiti alla Corte di giustizia che nella celebre sentenza Taricco aveva stabilito l’obbligo per il giudice comune di disapplicare le norme interne (artt. 160, ultimo comma e 161 c.p.) relative all’interruzione della prescrizione dei “reati IVA”, in quanto incompatibili con l’art. 325, parr. 1 e 2, TFUE (ordinanza 24 gennaio 2017, n. 24). Grazie al dialogo in via pregiudiziale il “conflitto costituzionale”, che si impuntava sulla diversa declinazione del principio di legalità nell’ordinamento sovranazionale (art. 49 CdFUE) e in quello costituzionale interno (art. 25, comma 2, Cost.), trovò una difficile (e parziale) composizione (M.A.S. e M.B.; sentenza 31 maggio 2018, n. 115; v. C. Amalfitano, 2019a).

Proprio la “saga Taricco” e la necessità di ritornare protagonista nella definizione dello standard di tutela diritti fondamentali (v. A. Barbera) sono alla base della sentenza 14 dicembre 2017, n. 269, con la quale la Corte costituzionale ha invertito l’ordine “classico” delle questioni, che affidava priorità a quella “comunitaria” su quella costituzionale, nei casi in cui la norma nazionale infrange un diritto fondamentale tutelato in pari tempo da una disposizione della Costituzione e da una della CdFUE (G. Scaccia). All’esito di diverse precisazioni che hanno attenuato le originarie criticità del celebre obiter dictum (sentenza 21 febbraio 2019, n. 20;  21 marzo 2019, n. 63; ordinanza 10 maggio 2019, n. 117), oggi ci si trova dinanzi ad un nuovo modello relazionale tra la Corte costituzionale, il giudice comune e la Corte di giustizia, destinato ad affiancarsi al consolidato sistema Granital (definito “modello 269 temperato” da C. Amalfitano, 2019b). In sostanza, il giudice può sollevare una questione di costituzionalità nei casi di c.d. “doppia pregiudiziale”, a prescindere dalla diretta efficacia del parametro costituito dalla norma CdFUE; una possibilità che era esclusa nella giurisprudenza precedente dato che la disapplicazione della norma interna comportava il venir meno del requisito della rilevanza della questione di legittimità costituzionale e, di conseguenza, la sua inammissibilità. Peraltro, il giudice non solo ha la facoltà (e non più l’obbligo come emergeva dalla sentenza n. 269 del 2017) di rimettere una questione di costituzionalità alla Consulta, ma esso rimane libero, anche all’esito del giudizio costituzionale, di disapplicare la norma interna e di interrogare la Corte di giustizia.

Inoltre, lo sviluppo della giurisprudenza costituzionale successiva al celebre obiter dictum della sentenza n. 269 del 2017 ha permesso di chiarire che ad assurgere a parametro del giudizio di costituzionalità ex art. 11 e 117, comma 1, Cost. possono essere anche norme di diritto derivato in «singolare connessione con le pertinenti disposizioni della CDFUE: non solo nel senso che essi ne forniscono specificazione o attuazione, ma anche nel senso, addirittura inverso, che essi hanno costituito “modello” per quelle norme, e perciò partecipano all’evidenza della loro stessa natura» (così la citata sentenza n. 20 del 2019; v. anche sentenza 16 giugno 2022, n. 149).

In tale nuovo sistema di relazioni tra “le Carte e le Corti” (R. Mastroianni, 2020), la Corte costituzionale ha dimostrato di sentirsi a suo agio nel dialogo pregiudiziale ex art. 267 TFUE, utilizzando più volte tale meccanismo di cooperazione per portare a Lussemburgo il proprio contributo alla costruzione di standard condivisi di tutela dei diritti fondamentali.

Nell’ordinanza 10 marzo 2019, n. 117 la Corte costituzionale ha interrogato la Corte di giustizia sull’interpretazione e sulla validità dell’art. 14, par. 3, della direttiva 2006/6/CE e dell’art. 30, par. 1, lett. b), del regolamento (UE) n. 596/2014, in quanto la norma nazionale di attuazione (l’art. 187-quinquisdecies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58) era censurata dalla Cassazione civile rispetto anche agli art. 11 e 117, comma 1, Cost. per violazione degli artt. 47 e 48 CdFUE. Infatti, la norma nazionale si poneva in contrasto con il diritto al silenzio (declinazione del diritto di difesa ex art. 24 Cost.), in quanto sanzionava la condotta del soggetto reticente nel procedimento amministrativo dinanzi alla Consob. Nonostante il richiamo all’identità costituzionale italiana (v. punto 7.1 considerato in diritto), che ben non faceva presagire pensando alla “saga Taricco”, il dialogo in via pregiudiziale si dimostrò fecondo: la Grande Sezione accolse le preoccupazioni della Consulta, con la conseguenza che gli standard, nazionale, europeo nonché CEDU, di tutela dei diritti fondamentali finirono per collimare (DB c. Consob, sulla quale M. Aranci; sentenza 30 aprile 2021, n. 84).

Nell’ordinanza 30 luglio 2020, n. 182 la Corte costituzionale domandava l’interpretazione dell’art. 34 CdFUE alla luce dell’art. 12, par. 1, lett. e), della direttiva 2011/98/UE e del regolamento (CE) n. 883/2004, in una complessa vicenda che contrapponeva l’INPS a diversi cittadini extracomunitari titolari del permesso unico di cui a tale direttiva, che si erano visti negati l’erogazione del c.d. bonus bebè (art. 1, comma 125, della legge 23 dicembre 2014, n. 190) e dell’assegno di maternità (art. 74 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151). Il giudice di Lussemburgo accolse i dubbi sollevati dalla Consulta rispetto alla compatibilità del diritto interno con il principio di pari trattamento stabilito dalla direttiva e dalla norma della CdFUE (O.D. c. INPS e sentenza 4 marzo 2022, n. 54).

Infine, nelle ordinanze 18 novembre 2021, nn. 216 e 217 i giudici di palazzo della Consulta hanno interrogato la Corte di giustizia rispetto all’interpretazione delle norme della decisione quadro 2002/584/GAI sul mandato d’arresto europeo (si consenta il rinvio a S. Barbieri; C. Amalfitano, M. Aranci; S. Montaldo, S. Giudici). Anche in questo caso, il dialogo in via pregiudiziale tra le due Corti ha portato ad una costruzione condivisa dello standard di protezione dei diritti fondamentali e al rafforzamento della cooperazione penale nell’Unione: nella prima vicenda, il risultato si è tradotto nell’estensione del c.d. “test Aranyosi” anche al caso in cui lo Stato emittente non offra informazioni e garanzie sufficienti sulla possibilità di offrire cure adeguate al soggetto colpito da una patologia cronica e grave (v. in questa Rivista, L. Tomasi); invece, nella seconda vicenda la Corte di giustizia ha rilevato l’incompatibilità “comunitaria” della norma interna di attuazione della DQ (art. 18-bis, comma 1, lettera c, della legge 22 aprile 2005, n. 69) – e la Corte costituzionale ne ha dichiarato la conseguente incostituzionalità – nella misura in cui escludeva i cittadini di Stati terzi dal motivo facoltativo di rifiuto di esecuzione del MAE nell’ipotesi di residenza o dimora radicata presso lo Stato membro di esecuzione (v. in questa Rivista, C. Amalfitano, 2023).

Una nuova occasione di dialogo: l’ordinanza n. 29 del 2024

Non è la prima volta che la Corte costituzionale è stata chiamata ad occuparsi della costituzionalità dell’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 che esclude i cittadini extracomunitari privi della ex carta di soggiorno dal godimento dell’assegno sociale (art. 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335). Infatti, nella sentenza 15 marzo 2019, n. 50 la norma oggetto dell’odierna questione veniva censurata dai Tribunali di Torino e Bergamo in relazione agli artt. 3, 38 e 10 Cost., quest’ultimo con riguardo all’art. 14 CEDU. In tale decisione, la Consulta stabilì che, stante la limitatezza delle risorse disponibili, rientra nella discrezionalità del legislatore individuare criteri ragionevoli che condizionino l’accesso a determinate prestazioni di assistenza sociale: «laddove è la cittadinanza stessa, italiana o comunitaria, a presupporre e giustificare l’erogazione della prestazione ai membri della comunità, viceversa ben può il legislatore esigere in capo al cittadino extracomunitario ulteriori requisiti, non manifestamente irragionevoli, che ne comprovino un inserimento stabile e attivo» (ivi, punto 7 considerato in diritto). Peraltro, nella medesima pronuncia la Corte costituzionale chiarisce che «[u]n obbligo costituzionale di attribuire l’assegno sociale allo straniero privo della (ex) carta di soggiorno non deriva neppure dall’art. 12 della direttiva 2011/98/UE» (ivi, punto 9 considerato in diritto).

Al contrario, nella rimessione alla base dell’odierna ordinanza n. 29 del 2024 la sezione lavoro della Corte di cassazione ha posto quali parametri del dubbio di costituzionalità della norma interna gli artt. 3, 11, 38, comma 1, e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 34 CdFUE e 12, par. 1, lett. e), della direttiva 2011/98/UE. Inoltre, occorre ricordare che l’ordinanza si innesta all’interno di un procedimento a quo riguardante una cittadina albanese, titolare di un solo permesso unico per motivi familiari, che si è vista negare dall’INPS l’erogazione dell’assegno sociale.

Dalla decrizione della normativa nazionale rilevante operata dalla Consulta (ri)emerge chiaramente il ragionamento alla base della sentenza n. 50 del 2019 (ivi, punto 5 considerato in diritto). In primo luogo, i giudici costituzionali rammentano come l’assegno sociale sia riservato ai cittadini italiani, comunitari ed extracomunitari titolari di permesso UE di soggiorno di lungo periodo ex art. 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286. In secondo luogo, si sottolinea che l’assegno sociale è subordinato anche ad un ulteriore requisito generale quale il soggiorno, legale e in via continuativa, per almeno dieci anni sul territorio nazionale (art. 20, comma 10, del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112).

Così ricostruita la normativa interna, con un’unica questione pregiudiziale d’interpretazione la Corte costituzionale domanda alla Corte di giustizia quale sia la precisa estensione del principio di pari trattamento di cui all’art. 12, par. 1, lett. e), della direttiva 2011/98/UE, che concretizza il diritto fondamentale dell’accesso alle sicurezza e all’assistenza sociale di cui all’art. 34 CdFUE, e in particolare se nel suo campo applicativo vada ricondotto anche l’assegno sociale, con la conseguenza che l’esclusione dei cittadini di Stati terzi “non lungosoggiornanti” debba essere ritenuta contraria al diritto dell’Unione.

«[F]erma restando la competenza esclusiva della Corte di giustizia a fornir[e] l’interpretazione uniforme [del diritto dell’Unione europea]», la Consulta non rinuncia, «nello spirito di collaborazione che caratterizza i rapporti tra le Corti» a prospettare la propria interpretazione (ordinanza n. 29 del 2024, cit., punto 6 considerato in diritto) come, d’altronde, richiesto dalla stessa Corte di giustizia nelle proprie raccomandazioni ai giudici nazionali (punto 18).

Pertanto, la Corte costituzionale sottolinea che l’art. 12, par. 1, lett. e), della direttiva 2011/98/UE menziona i cittadini degli Stati terzi ex art. 3, par. 1, lett. b) e c) in quanto lavoratori, con la conseguenza che non è sufficiente, perché questi ultimi godano del principio di parità di trattamento, il possesso di tali titoli ma è altresì necessario che svolgano o abbiano svolto un’attività lavorativa (ordinanza n. 29 del 2024, cit., punto 6.2 considerato in diritto). Inoltre, il rinvio contenuto nella lett. e) al regolamento (CE) n. 883/2004 fa riferimento specifico ai settori della sicurezza sociale disciplinati dall’art. 3, par. 1 dello stesso che rimandano, anche indirettamente, ai rischi connessi all’attività lavorativa (ivi, punto 6.3 considerato in diritto). Peraltro, occorre notare che la Corte costituzionale afferma come il regolamento in parola dia concreta traduzione all’art. 48 TFUE che ha quale obiettivo implementare la mobilità dei lavoratori nel mercato interno (ivi, punto 6.3.1 considerato in diritto).

Per quanto riguarda il campo di applicazione del regolamento (CE) n. 883/2004, la Consulta indica che l’art. 3, par. 1, elenca una serie di prestazioni di sicurezza sociale, mentre il par. 3 afferma che «[i]l presente regolamento si applica anche alle prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo di cui all’articolo 70». All’interno di questa ultima categoria di prestazioni definite anche “miste” e speciali” – caratterizzate dalla comprensenza di elementi attinenti alla sicurezza e all’assistenza sociale come discende dalla definizione ex art. 70 par. 1 – in virtù del rinvio ex art. 70, par. 2, lett. c) all’allegato X deve essere ricondotto anche l’assegno sociale ivi compreso.

Dunque, al contrario del giudice remittente per il quale tale provvidenza deve essere riconosciuta ai cittadini di Stati terzi muniti del titolo ex art. 3, par. 1, lett. b) e c) della direttiva 2011/98/UE, la Consulta suggerisce (?) un’esegesi diversa alla Corte di giustizia fondata su tre argomenti ricavati da una lettura sistematica del combinato disposto formato dalla direttiva 2011/98/UE e dal regolamento (CE) n. 883/2004.

In primo luogo, l’art. 12, par. 1, lett. e), della direttiva rimanda al regolamento (CE) n. 883/2004 con esclusivo riferimento ai “settori della sicurezza sociale” definiti dall’art. 3, par. 1, e menziona i cittadini degli Stati terzi ex art. 3, par. 1, lett. b) e c) solo in quanto lavoratori, quando le prestazioni speciali di cui all’art. 70 non hanno alcuna connessione con un rapporto lavorativo e, dunque, contributivo del beneficiario (ivi, punto 7.2 considerato in diritto).

In secondo luogo, le “prestazioni miste” considerate dal regolamento (CE) n. 883/2004 si caratterizzano per elementi strutturali e finalità che le tengono ben distinte dalle prestazioni di sicurezza sociale di cui all’art. 3, par. 1: «[a] differenza di queste, le prestazioni speciali di carattere non contributivo forniscono una copertura dei suddetti rischi non già diretta, ma “complementare, suppletiva o accessoria”, intesa a “garantire, alle persone interessate, un reddito minimo di sussistenza in relazione al contesto economico e sociale dello Stato membro interessato”» (ivi, punto 7.2 considerato in diritto). Per tale ragione – argomenta la Corte – i costi di tali provvidenze sono supportati dalla fiscalità generale e le condizioni per il loro accesso e calcolo non dipendono da alcun contributo da parte del beneficiario (ibidem).

Nell’interpretazione della Consulta la peculiarità della categoria si riflette sulla diversa disciplina delineata dal regolamento (CE) n. 883/2004. Infatti, dall’art. 70, par. 3, discende che alle prestazioni “miste” non si applica la “regola dell’esportabilità” prevista dall’art. 7, con la conseguenza che l’istituzione erogatrice è esclusivamente quella dello Stato membro ove il beneficiario risiede ai sensi dell’art. 1, lett. j (ivi, punti 7.3 e 7.4 considerato in diritto). Del resto, secondo il giudice delle leggi validi argomenti che propendono per la “compatibilità comunitaria” della normativa italiana si ricavano dalla giurisprudenza della Corte di giustizia sorta in sede di rinvio pregiudiziale, che aveva dichiarato non contrarie al diritto dell’Unione europea quelle norme nazionali che limitavano l’erogazione di simili prestazione ai cittadini comunitari in presenza di precisi requisiti relativi al rapporto lavorativo o alla residenza nello Stato membro ospitante (ivi, punto 7.5 considerato in diritto; v. Dano; Alimanovic; García-Nieto).

In terzo luogo, è lo sguardo diacronico sull’ambito ratione personae del regolamento (CE) n. 883/2004 ad illuminarne la ratio. Quest’ultimo è stato reso applicabile anche ai cittadini extracomunitari ai quali non fosse già applicabile a ragione della sola nazionalità dal regolamento (UE) n. 1231/2010, il quale si pone quale obiettivo quello di facilitare la circolazione dei lavoratori nel territorio dell’Unione europea. Di conseguenza, al pari dei cittadini comunitari, anche quelli degli Stati terzi possono accedere alle provvidenze miste ex art. 70 se sussiste un rapporto di contribuzione con il sistema previdenziale dello Stato ospistante (ordinanza n. 29 del 2024, cit., punto 8 considerato in diritto).

In definitiva, l’art. 12, par. 1, lett. e) della direttiva non consente di estendere, in modo automatico e generale, ai cittadini di Stati terzi muniti dei permessi ex artt. 3, par. 1, lett. b) e c) tutte le provvidenze del regolamento (CE) n. 883/2004: «[p]are, dunque, a questa Corte che i cittadini di Paesi terzi ai quali si applica l’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE possano beneficiare dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano soltanto se lavoratori e con esclusivo riferimento alle prestazioni relative ai settori di sicurezza sociale elencati all’art. 3, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 883/2004, mentre, per poter fruire delle speciali prestazioni di cui all’art. 70 del medesimo regolamento – nel cui novero si inscrive l’assegno sociale in scrutinio – non possono che sottostare alle condizioni per esse espressamente previste dalla stessa disciplina di coordinamento nonché dalla legislazione dello Stato ospitante» (ivi, punto 9 considerato in diritto).

Prime considerazioni

Giunta a pochi giorni da un ulteriore episodio che ha movimentato il campo dei rapporti tra giudici e ordinamenti (sentenza 12 febbraio 2024, n. 15; v. U. Villani), l’ordinanza n. 29 del 2024 rappresenta una nuova occasione di dialogo in via pregiudiziale del “cammino comunitario” del Giudice costituzionale, che non smette di offrire nuovi passi meritevoli di attenzione.

Per quanto attiene alla materia trattata, il rinvio pregiudiziale risulta strettamente connesso al precedente della Corte costituzionale sollevato con l’ordinanza n. 182 del 2020. Infatti, medesime sono le norme sovranazionali invocate (artt. 34 CdFUE e 12 della direttiva 2011/98/UE) e la questione di fondo, ovvero il delicato rapporto tra il principio di parità di trattamento a favore dei cittadini extracomunitari privi della ex carta di soggiorno e le legislazioni nazionali di sicurezza e assistenza sociale. Difatti, con la remissione alla base della pronuncia qui in commento la Corte di cassazione suggerisce alla Consulta di ritornare, dopo la sentenza n. 50 del 2019, ad esaminare la questione di costituzionalità della norma interna a ragione della sentenza OD c. INPS, emanata della Corte di giustizia a seguito dell’ordinanza n. 182 del 2020. In particolare, il giudice della nomofilachia invita la Consulta a rivedere la propria posizione sul contrasto tra la normativa interna e il diritto dell’Unione europea sottolineando come i giudici del Kirchberg abbiano stabilito che il principio di parità di trattamento ex art. 12, par. 1, della direttiva 2011/98/UE si applica ai cittadini degli Stati terzi ammessi nello Stato membro ai fini di un’attività lavorativa come a quelli ammessi per altri motivi (v. ordinanza n. 82 del 2023 del Registro della Corte costituzionale e OD c. INPS, punti 48-49).

Non vi è ragione per non sottolineare che anche in questo caso il giudice delle leggi sia permeato da un «convinto e convincente europeismo» (D. Gallo, A. Nato), particolarmente evidente laddove viene ribadita la «competenza esclusiva» della Corte di giustizia nell’interpretare il diritto dell’Unione europea (ordinanza n. 29 del 2024, cit., punto 6 considerato in diritto). Un omaggio all’eminente compito che spetta ai giudici del Kirchbeg (artt. 19 TUE e 267 TFUE) che non andrebbe derubricato, soprattutto in considerazione del ben diverso atteggiamento di altre corti e tribunali costituzionali (Euro Box Promotion e RS; sentenza del 7 ottobre 2021 del Tribunale costituzionale polacco). Tuttavia, dall’ordinanza n. 29 del 2024 emerge molto chiaramente la lettura alquanto perentoria che la Consulta affida ai parametri sovranazionali coinvolti nel giudizio di costituzionalità (art. 12, par. 1, lett. e della direttiva 2011/98/UE e art. 34 CdFUE). Il che si spiega, all’evidenza, sia con la delicatezza della questione sia con il contrasto interpretativo che si profila tra il giudice delle leggi e la Corte di cassazione quale organo remittente.

In secondo luogo, non può che svolgersi qualche considerazione rispetto al “modello 269 temperato”. Sul punto, occorre richiamare la sentenza 11 marzo 2022, n. 67 laddove la Consulta ha dichiarato inammissibili due questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto la disciplina dell’assegno per il nucleo famigliare (“ANF”), sollevate dalla Cassazione, in quanto come parametro interposto dell’art. 117, comma 1, Cost. venivano richiamati gli art. 11, par. 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE e (anche in tal caso) l’art. 12, par. 1, lett. e), della direttiva 2011/98/UE; norme queste ultime che la Corte di giustizia ha ribadito essere direttamente efficaci in due cause pregiudiziali sorte dai rinvii sollevati dalla Cassazione nei medesimi procedimenti (INPS c. VR e INPS c. WS). In tali casi, secondo la Corte costituzionale, l’inammissibilità era l’unica soluzione percorribile data la diretta efficacia delle norme “comunitarie” invocate e non avendo il remittente, a differenza di quanto avveniva nell’ordinanza n. 182 del 2020, incluso tra i parametri ex art. 117, comma 1, Cost. una norma della CdFUE (quale l’art. 34 CdFUE) che legittimasse il trattenimento della questione a ragione della presenza di un’ipotesi di “doppia pregiudiziale”.

Dunque, l’ordinanza n. 29 del 2024 conferma che una norma di diritto derivato, anche se direttamente efficace – come l’art. 12, par. 1, lett. e), della direttiva 2011/98/UE – se richiamata insieme ad una norma CdFUE che con questa sia in “singolare connessione”, non comporta il venir meno della rilevanza e, dunque, l’inammissibilità della questione a ragione del potere (e dovere) di disapplicazione in capo al giudice comune.

Pertanto, da una prima lettura si trae una chiara indicazione dei confini mobili del “modello 269 temperato”, all’interno del quale la Consulta predica che il sindacato accentrato di costituzionalità (art. 134 Cost.) si aggiunge a, e non sostituisce, la disapplicazione del giudice comune, e insieme ad essa partecipa al concorso di rimedi diretti alla tutela dei diritti fondamentali (sulla possibile “convivenza” tra disapplicazione e rimessione alla Consulta, v. la già richiamata pronuncia n. 15 del 2024, in particolare punto 8.2 considerato in diritto). E in tale contesto è l’art. 267 TFUE a consentire alla Consulta di far valere dinanzi alla Corte di giustizia la “propria” interpretazione del diritto dell’Unione europea, di contribuire alla costruzione di standard condivisi di tutela dei diritti fondamentali e, in sostanza, di cercare delle “parole comuni” (S. Sciarra).