La Corte di giustizia condanna l’Ungheria al pagamento della più alta sanzione mai comminata ex art. 260, par. 2, TFUE
Corte giust., sentenza 13 giugno 2024, causa C-123/22, Commissione c. Ungheria
La Cour de justice condamne la Hongrie à payer l’amende la plus élevée jamais infligée au titre de l’article 260, paragraphe 2, TFUE
The Court of Justice Imposes the Highest Penalty Ever Under Article 260(2) TFEU to Hungary
Con sentenza del 17 dicembre 2020, resa nella causa C-808/18 avente ad oggetto un ricorso per inadempimento ai sensi dell’art. 258 TFUE, la Grande Sezione della Corte di giustizia aveva accertato che l’Ungheria era venuta meno ai suoi obblighi relativi (i) all’accesso alla procedura di protezione internazionale, (ii) al trattenimento dei richiedenti protezione internazionale nelle zone di transito di Röszke e di Tompa, (iii) all’allontanamento dei cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, nonché (iv) al diritto dei richiedenti protezione internazionale di rimanere nel territorio ungherese fino alla scadenza del termine entro cui esercitare il diritto a un ricorso effettivo e, in caso di effettivo esercizio, in attesa dell’esito del ricorso (E. Colombo, 2021; S. Progin-Theuerkauf, 2021; M. Myl, 2022).
Mentre le aree di transito di Röszke e di Tompa furono chiuse già prima della pronuncia della Corte nella causa C-808/18, venendo ivi menzionate solo per il noto principio per cui l’ottemperanza dello Stato in corso di procedura non fa venir meno l’interesse a statuire sul relativo motivo di ricorso (Corte giust., 28 gennaio 2020, causa C‑122/18, Commissione c. Italia, punto 58 e giurisprudenza ivi citata), negli ultimi anni l’Ungheria non ha adottato misure necessarie all’esecuzione della sentenza, venendo così meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’art. 260, par. 1, TFUE.
Nuovamente adita dalla Commissione europea, la Corte di giustizia, riunita questa volta in Quarta Sezione, con sentenza resa il 13 giugno 2024 nella causa C-123/22, oggetto del presente commento, ha dunque proceduto a condannare l’Ungheria al pagamento di una somma forfettaria pari a 200 milioni di euro e di una penalità pari a 1 milione di euro per ogni giorno in cui permangano i comportamenti lesivi già accertati con la precedente pronuncia resa nel dicembre 2020. In particolare, la penalità di mora si distingue in 900.000 euro al giorno relativi alla violazione dell’art. 6 e l’art. 46, par. 5, della direttiva 2013/32/UE (ovvero, alle violazioni precedentemente elencate ai punti 62-71 e 75-82) e EUR 100 000 al giorno relativi alla violazione degli artt. 5, 6, 12 e 13 della direttiva 2008/115/CE (relativi alle violazioni sub punti 72-74).
Diversi sono i motivi che rendono di assoluta rilevanza la pronuncia ora in commento.
In primo luogo, questa sentenza costituisce sia la prima volta in cui l’Ungheria è stata assoggettata ad un procedimento ex art. 260 TFUE, sia la prima decisione ai sensi di questa stessa disposizione in materia di asilo.
La casistica, su ambi i fronti, ben potrà arricchirsi di nuovi elementi. Ad oggi, infatti, la Corte ha accertato un’infrazione da parte dell’Ungheria ex art. 258 TFUE in altri tre casi concernenti la politica comune in materia di asilo: le cause riunite C-715/17, C-718/17 e C-719/17, riguardanti, in particolare, la ricollocazione temporanea ed eccezionale di persone in evidente bisogno di protezione internazionale dall’Italia e dalla Grecia in altri Stati membri (E. Colombo, 2020); la causa C-821/19, in materia di criminalizzazione di attività di assistenza ai richiedenti asilo, di misure restrittive nei confronti di persone condannate o accusate del reato di assistenza umanitaria e relativa a ragioni di inammissibilità delle domande di protezione internazionale (C. Scissa, 2021; A. R. Salerno, 2022); la causa C-823/21, concernente l’approvazione di una normativa nazionale che subordina(va) la possibilità di accedere alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale alla condizione che venisse svolta una procedura preliminare presso una rappresentanza diplomatica ungherese in un Paese terzo (R. Benassai, 2023).
Mentre il primo caso non implicava per l’Ungheria alcuna misura di esecuzione – in quanto, alla data di pubblicazione della pronuncia, la decisione 2015/1523 del Consiglio che istituiva misure temporanee nel settore della protezione internazionale a beneficio dell’Italia e della Grecia aveva cessato di produrre i suoi effetti (si veda, in particolare, il suo art. 13) – il secondo e il terzo ben potranno generare nuove procedure “di doppia condanna” (C. Amalfitano, 2007) ex art. 260, par. 2, TFUE. In particolare, con riguardo proprio alla sentenza in ultimo citata la Commissione ha già inviato, in data 24 aprile 2024, una lettera di messa in mora per la perdurante inottemperanza dell’Ungheria agli obblighi incombenti in forza dell’art. 6 della direttiva 2013/32/UE.
In secondo luogo, e a titolo ricostruttivo della prassi relativa all’art. 260, par. 2, TFUE, va evidenziato che la sentenza in esame amplia un corpus giurisprudenziale certamente di assoluto rilievo istituzionale e “assiologico”, stante il suo significato per il processo di integrazione, ma quantitativamente non ingente. Dall’entrata in vigore del trattato di Lisbona (che ha modificato la disposizione prevedendo una fase precontenziosa abbreviata, composta dal solo invio della lettera di messa in mora) al 30 giugno 2024 sono state emanate 34 sentenze ex art. 260, par. 2, TFUE (per un’analisi sino al 2020, si veda C. Amalfitano, M. Condinanzi, 2020, p. 267, nota 152). Di queste, solo due hanno respinto il ricorso della Commissione (si vedano le pronunce nelle cause C-95/12 e C-174/21), mentre in 26 casi, tra cui quello che ora ci occupa, la Corte ha comminato allo Stato membro sia il pagamento di una somma forfettaria che di una penalità (C. Amalfitano, M. Condinanzi, 2020, p. 268, nota 157, a cui si sono aggiunte le sentenze della Corte nelle cause C-842/19, C-51/20, C-109/22 e C-123/22). Con le rimanenti sei decisioni i giudici ingiungevano il pagamento della sola somma forfettaria, a seguito della richiesta della Commissione di non irrogare la penalità visto l’adeguamento dello Stato membro, nel corso del procedimento, alla sentenza emessa ai sensi dell’art. 258 TFUE. Da questa prospettiva, dunque, la sentenza in commento non si distingue particolarmente dalle altre rese in analoghe procedure.
Viceversa, è il puro ammontare della somma forfettaria e della penalità di mora inflitti all’Ungheria a segnare un nuovo record nella prassi attuativa dell’art. 260, par. 2, TFUE e ad aver attratto la principale attenzione, anche mediatica, su questa pronuncia. Come si ricorderà, la somma forfettaria più elevata comminata, prima della decisione in esame, nella causa C-196/13 relativa alla gestione dei rifiuti da parte dell’Italia corrispondeva a 40 milioni, accompagnata da una penalità calcolata, per il primo semestre, a partire da un importo iniziale fissato in 42.800.000 euro (dal quale venivano detratti 400.000 euro per ciascuna discarica contenente rifiuti pericolosi messa a norma conformemente a detta sentenza e 200.000 euro per ogni altra discarica messa a norma conformemente a detta sentenza) e per tutti i semestri successivi, calcolata a partire dall’importo della penalità stabilita per il semestre precedente, applicando le suddette detrazioni.
L’importanza dell’ammontare delle somme oggetto della pronuncia in esame emerge anche dal fatto che la somma forfettaria stabilita dalla Corte è maggiore di oltre 191 volte quanto richiesto dalla Commissione e la penalità di mora di oltre 61 volte (G. Barrett, 2024). Secondo costante giurisprudenza – che conferma un’interpretazione letterale dell’art. 260, par. 2, TFUE (C. Burelli, 2024, p. 262) – le proposte della Commissione relative all’importo delle due tipologie di sanzioni comminabili costituiscono soltanto un’utile base di riferimento e non possono vincolare la Corte, che resta libera di decidere in merito all’irrogazione e all’importo della somma forfettaria, nonché di fissare la penalità nell’ammontare e nella forma che considera adeguata per indurre lo Stato membro a porre fine alla mancata esecuzione degli obblighi ad esso incombenti in forza del diritto dell’Unione (si veda, in particolare, punti 98 e 140).
Invero, come messo in luce dalla dottrina (A. Kornezov, 2014, p. 313 ss.;), se in alcuni casi i giudici del Kirchberg hanno fatto propria la metodologia di calcolo della Commissione esposta nelle sue comunicazioni (da ultimo, comunicazione della Commissione, Sanzioni pecuniarie nei procedimenti d’infrazione 2023/C 2/01 e comunicazione della Commissione, Aggiornamento dei dati utilizzati per il calcolo delle sanzioni pecuniarie che la Commissione propone alla Corte di Giustizia dell’Unione europea nell’ambito dei procedimenti d’infrazione c/2024/1123), nella fattispecie ora in esame la Corte ha adottato, come in un numero considerevole di altri esempi, un approccio diverso nel determinare l’importo delle sanzioni da imporre allo Stato membro, statuendo secondo equità, ovverosia non affidandosi a calcoli aritmetici ma indicando la somma che ritiene più “appropriata” o “adeguata” «without explanation as to how it has arrived at a final penalty amount» (A. Kornezov, 2014, p. 318).
Pur utilizzando metodi di calcolo differenti, la Corte di Giustizia non si è mai discostata di troppo dalle proposte avanzate dalla Commissione, benché non siano mancati «casi (rari, eppure esistenti) in cui i giudici del Kirchberg hanno condannato lo Stato convenuto a una penalità più alta di quella domandata dalla guardiana dei trattati» (C. Burelli, 2024, p. 264). La pronuncia ora in esame fa, quindi, parte di questo secondo gruppo di casi eccezionali e, al contempo, ne rappresenta un unicum, dato il divario così importante tra quanto formulato dalla Commissione e la sanzione imposta dalla sentenza della Corte (basti ricordare che in una delle rare sentenze [del 12 novembre 2019, Commissione c. Irlanda] con cui la Corte aveva irrogato una sanzione superiore a quanto formulato dalla Commissione, lo Stato membro era stato condannato ad una somma forfettaria che superava, all’incirca, 5 volte l’importo proposto dalla Commissione e ad una penalità giornaliera di soli 2 736 euro in più rispetto quanto prospettato dalla stessa Istituzione).
Segnatamente, i criteri di base presi in considerazione nella causa ora in commento sia per determinare la somma forfettaria che la penalità sono i medesimi e consistono nella (a) gravità e (b) nella durata delle infrazioni accertate nonché (c) nella capacità finanziaria dell’Ungheria (punti 101 e 142; sui criteri usati dalla Corte per decidere l’ammontare delle sanzioni si rimanda a L. Prete, B. Smulders, 2010, p. 52 ss.).
A proposito del requisito della gravità, la Corte evidenzia come il mancato adempimento della sentenza Commissione c. Ungheria del 2020 pregiudica in modo straordinariamente grave tanto l’interesse pubblico (con una particolare violazione del principio di legalità e dell’autorità della cosa giudicata: punto 102), quanto gli interessi privati, in particolare quelli dei cittadini di Paesi terzi e degli apolidi richiedenti protezione internazionale (punto 118). Giova, a tal proposito, ricordare che fu proprio a seguito di tale pronuncia che FRONTEX sospese, ai sensi dell’art. 46, par. 4, del suo regolamento istitutivo, le operazioni in Ungheria a fronte di violazioni dei diritti fondamentali o degli obblighi in materia di protezione internazionale di natura grave o destinate a persistere correlate alla sua attività.
Inoltre, ed è questo un passaggio fondamentale, la Corte “irradia” le disposizioni oggetto dell’inadempimento, congiungendo il ripetuto mancato rispetto di queste ad alcune disposizioni pattizie e della Carta (punti da 104 a 112). Ad esempio, la violazione dell’art. 6 della direttiva 2013/32 impedisce sistematicamente l’accesso alla procedura di protezione internazionale, rendendo impossibile l’applicazione integrale della politica comune in materia di asilo, quale stabilita all’art. 78 TFUE. A sua volta, l’elusione deliberata dell’applicazione della politica comune in materia di asilo costituisce una violazione inedita ed eccezionalmente grave del diritto dell’Unione, che rappresenta una minaccia importante per l’unità di tale diritto e per il principio di uguaglianza degli Stati membri, richiamato all’art. 4, par. 2, TUE. Inoltre, l’impossibilità di presentare una domanda di protezione internazionale alla frontiera ungherese priva le persone interessate del godimento effettivo del loro diritto, quale garantito dall’art. 18 della Carta. Ancora, l’art. 46, par. 5, della direttiva 2013/32 risulta indispensabile per garantire l’effettività del principio della tutela giurisdizionale effettiva (sul rilievo assunto dall’art. 47 della Carta nei settori dell’immigrazione e asilo si veda: F. Spitaleri, 2024). Da ultimo, stabilendo gli artt. 5, 6, 12 e 13 della direttiva 2008/115 garanzie fondamentali per gli individui, il loro mancato rispetto comporta la violazione, da parte dello Stato membro, «degli obblighi relativi alle procedure applicabili al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, questione che costituisce, in forza dell’art. 79, paragrafo 2, lettera c), TFUE, una componente fondamentale della politica comune dell’immigrazione» (punto 111).
Ancor più, la persistente inerzia dell’Ungheria arreca un pregiudizio estremamente grave al principio di solidarietà ed equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri, stabilito dall’art. 80 TFUE. Al riguardo, la Corte rammenta che il principio di solidarietà costituisce uno dei principi fondamentali del diritto dell’Unione e, ai sensi dell’art. 2 TUE, fa parte dei valori, comuni agli Stati membri, sui quali l’Unione si fonda – con un’ulteriore “valorizzazione” di quelli che, a mente della disposizione ora citata e della dottrina più prudente (L. Fumagalli, 2014, p. 14), sono mere caratteristiche della società europea; ma tale, discutibile, processo era partito già con le sentenze gemelle sul regolamento condizionalità (J. Alberti, 2022, p. 31, 32) e viene ora portato avanti (si vedano i punti 115, 116). Sebbene, peraltro, solidarietà e leale cooperazione non siano del tutto sovrapponibili (per un’analisi specifica F. Croci, 2020, p. 94 ss.), anche in questa pronuncia, come in altre (sentenza del 7 febbraio 1973, causa C-39/72, punti 24-25; sentenza del 7 febbraio 1979, causa C-128/78, , punto 12) emerge lo stretto rapporto tra i due concetti: l’Ungheria, non dando esecuzione alla sentenza nella causa C-808/18, «ha rotto unilateralmente l’equilibrio tra i vantaggi e gli oneri derivanti dalla sua appartenenza all’Unione» e questo «venir meno ai doveri di solidarietà accettati dagli Stati membri con la loro adesione all’Unione scuote dalle fondamenta l’ordinamento giuridico dell’Unione» (punto 117).
Guardando poi alla durata delle infrazioni accertate, i giudici, evidenziato che l’inadempimento perdura da oltre tre anni, qualificano “considerevole” la durata dell’infrazione (punti 126 ss.). Quale parametro di riferimento si consideri che la dottrina (A. Kornezov, 2014, p. 317) ha rilevato come la Corte valuti la durata della violazione come “significativa” se va dai 29 ai 37 mesi, “eccessiva” se si prolunga fino a circa 9 anni, “eccezionalmente lunga (più di 10 anni) e “particolarmente duratura” fino ai 19 anni.
Infine, conformemente ad un approccio consolidato (Cort. giust., 17 novembre 2011, causa C-496/09, Commissione c. Italia, punto 65), il quantum delle sanzioni viene misurato anche guardando alla capacità finanziaria dello Stato e, segnatamente, al PIL di quest’ultimo quale fattore predominante, senza tenere conto del suo peso istituzionale. Secondo il metodo di calcolo fatto proprio dalla Commissione al tempo in cui veniva depositato il ricorso che ha dato vita alla causa in esame, il peso istituzionale di un Paese dell’UE era espresso mediante l’uso di un numero rappresentativo corrispondente al numero di seggi nel Parlamento europeo assegnati a ciascuno Stato membro (comunicazione della Commissione, Modifica del metodo di calcolo delle somme forfettarie e delle penalità giornaliere alla Corte di giustizia dell’Unione europea). Viceversa, la Corte, in più di un’occasione, si era già espressa a favore di un metodo di calcolo che tenesse in considerazione il solo PIL (si vedano, ad esempio, C‑109/22, punto 69; C-51/20, punti 107-116) e da poco anche la Commissione, con la comunicazione del 2023, alla luce della giurisprudenza più recente, ha soppresso qualsiasi riferimento al peso istituzionale dello Stato membro interessato dal calcolo delle sanzioni pecuniarie proposto alla Corte. Tuttavia, nel documento appena citato (par. 3.4), la guardiana dei trattati suggerisce di calcolare il c.d. “fattore n.” basandosi «sul PIL degli Stati membri e, secondariamente, sulla loro popolazione come criterio demografico che consente di mantenere uno scostamento ragionevole tra i vari Stati membri».
Parimenti, sempre in forza del classico approccio supra citato, la Corte procede allo scrutinio delle circostanze attenuanti e aggravanti l’inadempimento (L. Prete, 2017, p. 263 ss.). Quanto alle prime, si prende atto del solo fatto che l’Ungheria non è stata assoggettata, in precedenza, ad alcun procedimento avviato sulla base dell’art. 260 TFUE. Costituiscono, invece, circostanze aggravanti: la reiterazione del comportamento costituente l’infrazione (che ha dato luogo, per altro, ai diversi altri accertamenti ex art. 258 TFUE di cui già si è detto: punto 120); la persistenza generalizzata dell’infrazione (punto 112) e l’insufficiente diligenza – sfociata, nel caso di specie, nella violazione dell’obbligo di leale cooperazione – nell’esecuzione della prima sentenza della Corte. Per vero, con riguardo a quest’ultimo aspetto, in palese violazione del principio del primato del diritto dell’UE, il governo ungherese sosteneva fosse giustificato attendere, prima di dare esecuzione alla sentenza del 2020, la conclusione del procedimento da esso avviato, il 25 febbraio 2021, dinanzi alla Corte costituzionale volto a stabilire la compatibilità di un obbligo derivante dal diritto dell’Unione con la Legge Fondamentale ungherese (punto 121). Per di più, a seguito della sentenza nella causa C-808/18, l’Ungheria, invece di garantire la piena esecuzione di tale sentenza, prorogava l’applicabilità ratione temporis delle disposizioni della legge n. LVIII del 2020, le quali erano anch’esse incompatibili con l’art. 6 della direttiva 2013/32, come dichiarato nella già citata sentenza del 22 giugno 2023. La Corte, come era agevole aspettarsi, giudica anche tale circostanza quale aggravante supplementare (punti 123, 124).
Stante la rilevanza degli importi in questione e la tensione attualmente riscontrabile nei rapporti tra l’Unione europea e il governo Orbàn, pare lecito interrogarsi su cosa potrebbe accadere nell’ipotesi, d’altronde già verificatasi con riguardo alla Polonia, di mancato pagamento della sanzione comminata.
In tal caso, la Commissione potrebbe procedere al recupero mediante compensazione, ai sensi dell’art. 101, paragrafo 1, e dell’art. 102 del regolamento (UE, Euratom) 2018/1046, ovverosia emettere una decisione volta al conguaglio del debito con diversi crediti vantati dal Paese nei confronti dell’Unione. Benché la penalità recuperata attraverso compensazione corrispondesse, nel caso della Polonia, ad una misura cautelare ex art. 279 TFUE (comminata con ordinanza del 20 settembre 2021 nella causa C‑121/21 R; si rimanda a L. Prete, 2020, p. 81 per un esame sull’art. 279 TFUE) e non alla somma forfettaria o penalità scaturita da una pronuncia emessa ai sensi dell’art. 260, par. 2, TFUE, e sebbene si tratti di cifre assai differenti nel loro ammontare (la Polonia era stata condannata a pagare una penalità di 500.000 euro), ciò non toglie che una procedura simile possa applicarsi al caso di specie. Si noti, infatti, che lo stesso Tribunale, con sentenza nelle cause T‑200/22 e T‑314/22, ha recentemente respinto i due ricorsi con cui la Polonia chiedeva l’annullamento delle decisioni della Commissione volte a recuperare, proprio mediante compensazione, le somme dovute dallo Stato membro a titolo di penalità giornaliera.
In chiusura, occorre riflettere sull’impatto che la tutela dello Stato di diritto e l’erogazione dei fondi strutturali e d’investimento hanno avuto sulla decisione in esame. La procedura d’infrazione, invero, rappresenta uno degli strumenti, accanto al meccanismo previsto dall’art. 7 TUE e al rinvio pregiudiziale, utili ad affrontare le violazioni dello Stato di diritto nell’UE (M. Smith, 2015, p. 350). A partire dal 2010, anno in cui Orbàn diventava primo ministro dell’Ungheria, la Corte ha emesso 13 sentenze ex art. 258 TFUE e, risultano, ad oggi, pendenti tre ricorsi per inadempimento nei confronti dello stesso Paese (nelle cause C-769/22; C-92/23 e C-155/23). Relativamente a tali procedure, come confermato dalla dottrina, «the Commission has not adopted an even rudimentary understanding of which cases precisely are to be labelled as falling under the notion ‘rule of law’» (J. Heliskoski, 2023, p. 142). Per vero, la Commissione ha, solo indirettamente, riconosciuto quali cause concernenti lo Stato di diritto la C-66/18, concernente le condizioni per la fornitura di servizi di istruzione superiore (a sua volta rilevante per il richiamo agli obblighi incombenti inforza della Carta, Prete, Smulders, 2021, p. 290), la C-78/18 sulla trasparenza delle organizzazioni che ricevono sostegno dall’estero, la C-821/19 riguardante la cd. “legge Stop Soros” (J. Heliskoski, 2023, p. 142) e la C-769/22 (ancora pendente) attinente una normativa che introduce misure più severe contro i pedofili e modifica di talune leggi per la protezione dei minori (Rule of Law Report Country Chapter on the rule of law situation in Hungary, 2023, p. 36).
Invece, la sentenza nella causa C-808/18, del 17 dicembre 2020, la cui mancata esecuzione ha portato alla pronuncia in esame, fa parte di quel gruppo di decisioni che presentano, probabilmente, una dimensione relativa anche allo Stato di diritto, pur non essendo state riconosciute come tali dalla Commissione (J. Heliskoski, 2023, p. 142). Date le preoccupazioni scaturenti dalla volontà del governo ungherese di attendere, prima di dare esecuzione alla pronuncia della Corte del 17 dicembre 2020, la conclusione del procedimento da esso avviato dinanzi alla Corte costituzionale (punti 17 e 121), la causa di cui si occupa il presente commento è stata, poi, citata nel report sullo Stato di diritto relativo al 2022.
Nonostante le ripetute violazioni di svariate normative dell’UE accertate dai giudici del Kirchberg e il costante deterioramento dello Stato di diritto nel Paese, il 13 dicembre 2023 la Commissione adottava una decisione con la quale autorizzava le autorità ungheresi ad iniziare a chiedere rimborsi di circa 10,2 miliardi di euro a titolo di Fondi strutturali e d’investimento europei (decisione che, il 25 marzo 2024, è stata impugnata dal Parlamento europeo con ricorso proposto ai sensi dell’art. 263 TFUE).
Questi due elementi di contesto, concernenti lo Stato di diritto e l’erogazione di fondi all’Ungheria, assieme alla constatazione che gli inadempimenti relativi specifiche norme di diritto derivato si ramificano in più gravi violazioni dei trattati e della Carta (si veda supra, punti da 104 a 112), potrebbero aver rappresentano ulteriore ragione di un ammontare così elevato delle sanzioni comminate.
*La presente segnalazione è stata scritta nell’ambito delle attività del progetto di ricerca di interesse nazionale (PRIN 2022) Community Sponsorship for Migrants and Refugees in Europe – CoSME (www.cosmeproject.eu), Finanziato dall’Unione europea – Next Generation EU