Domanda di pronuncia pregiudiziale e carenze del giudice nazionale: i limiti del dovere collaborativo della Corte di giustizia nel caso Ente Cambiano

Corte giust., 22 febbraio 2024, causa C-660/22, Ente Cambiano società cooperativa per azioni

Question préjudicielle et carences du juge national : les limites du devoir collaboratif de la Cour de justice dans l’affaire Ente Cambiano

Preliminary Reference and Shortcomings of National Judge: The Limits of the Duty of Cooperation of the Court of Justice in Case Ente Cambiano

 

Con sentenza dello scorso 22 febbraio 2024 (Ente Cambiano società cooperativa per azioni, di seguito, per brevità la “Sentenza”), la Corte di giustizia ha negato di potersi pronunciare sull’interpretazione in via pregiudiziale del diritto dell’Unione europea ritenuta necessaria dalla Corte di Cassazione italiana al fine di dirimere una controversia che, almeno di primo acchito, non si presentava manifestamente disciplinata dal diritto dell’Unione (l’ordinanza di rinvio della Corte di Cassazione del 27 settembre 2022 è disponibile online).

Pare utile offrire preliminarmente un sintetico quadro degli elementi all’origine del procedimento principale per accennare a quelle norme di diritto UE che il giudice nazionale ha ritenuto potenzialmente applicabili, passando poi ad illustrare i motivi per cui la Corte di giustizia (anche “CGUE”) ha dichiarato irricevibile la domanda di pronuncia pregiudiziale, rimettendo alla Cassazione la valutazione sull’opportunità di rielaborarne un’altra, più completa, e di sottoporla nuovamente al giudice UE.

Sorta nel 2017 dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Firenze e proseguita in appello dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Toscana, la vicenda verte sulla richiesta di Ente Cambiano S.C.P.A., società cooperativa per azioni (precedentemente strutturata nella forma di banca di credito cooperativo), di ottenere il rimborso della somma versata all’Erario pari a poco più di 54 milioni di euro e corrispondente al 20% del suo patrimonio netto al 31 dicembre 2015. Tale somma era stata versata da Ente Cambiano alle casse dello Stato per esercitare la facoltà conferita dall’art. 2, comma 3 bis, del decreto-legge 14 febbraio 2016, n. 18 (Misure urgenti concernenti la riforma delle banche di credito cooperativo, la garanzia sulla cartolarizzazione delle sofferenze, il regime fiscale relativo alle procedure di crisi e la gestione collettiva del risparmio, in GURI n. 37, 15.02.2016), convertito con modifiche dalla legge 8 aprile 2016, n. 49, di avvalersi di una procedura riconosciuta come «via d’uscita» (agli addetti ai lavori nota anche come “way out”) rispetto all’obbligo prescritto in capo agli istituti di credito dal D.L. 18/2016 di aderire a un gruppo bancario cooperativo per poter ottenere il rilascio dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria (art. 1, comma 1, decreto-legge 14 febbraio 2016, n. 18 che modifica aggiungendo il comma 1 bis all’art. 33 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia in GURI n. 230, 30.09.1993, altrimenti noto come “Testo Unico Bancario”). Tale way-out prevedeva infatti la possibilità di evitare l’adesione a un siffatto gruppo bancario per quelle banche di credito cooperativo che, alla data del 31 dicembre 2015, avessero un patrimonio netto superiore a 200 milioni di euro e intendessero conferire l’azienda a una società per azioni autorizzata all’esercizio dell’attività bancaria. Tale strumento prevedeva il pagamento di un importo pari al 20% di tale patrimonio netto nonché la modifica dello statuto e, segnatamente, dell’oggetto sociale con l’esclusione da quest’ultimo dell’esercizio dell’attività bancaria, pur mantenendo le clausole mutualistiche previste dall’art. 2514 c.c. e, per l’effetto, assicurando ai soci l’erogazione di servizi funzionali al mantenimento del rapporto con la nuova società per azioni. Perciò, Ente Cambiano avrebbe potuto scegliere tra due alternative: aderire a un gruppo bancario cooperativo mantenendo l’iscrizione all’albo delle società cooperative di cui all’art. 2512, secondo comma, c.c. o, posto che l’istituto soddisfaceva i requisiti patrimoniali prescritti dalla normativa applicabile, conferire la propria attività in una società per azioni, anche di nuova costituzione, pur versando all’Erario l’importo equivalente al 20% di detto patrimonio (per completezza, è opportuno segnalare che sarebbe stata esercitabile anche una terza opzione liquidativa ai sensi dell’art. 36, comma 1 bis, Testo Unico Bancario).

Benché si sia determinato per la seconda opzione sopra richiamata, Ente Cambiano ha ritenuto di avere diritto al rimborso della somma versata perché contraria, inter alia, agli artt. 101, 102, 120 e 173 TFUE nonché all’art. 63 TFUE, come più precisamente declinato dalla direttiva 2008/7/CE sulle imposte indirette sulla raccolta di capitali e dalla direttiva 2009/133/CE in materia di regime fiscale comune da applicare, tra le altre operazioni, ai conferimenti d’attivo concernenti società di Stati membri diversi.

Condividendo i dubbi di Ente Cambiano, gli Ermellini hanno quindi ritenuto necessario un rinvio pregiudiziale ai giudici di Lussemburgo per ottenere un’interpretazione utile alla definizione della causa a livello nazionale.

Tuttavia, questi ultimi hanno respinto tale richiesta interpretativa in ragione di diversi e molteplici motivi, tutti inquadrabili nella più generale nozione di irricevibilità. Quest’ultima è giunta in modo piuttosto risoluto giacché, dopo avere esposto la motivazione del rigetto sulla base di una serie di mancanze del provvedimento di rinvio, e fornito al contempo e implicitamente una serie di indicazioni per l’eventuale redazione di un nuovo quesito, la Corte di giustizia ha sostanzialmente fatto rimbalzare la palla nel campo della Suprema Corte italiana, invitandola infine, in modo neppure troppo velato, a considerare l’ipotesi di presentare una nuova domanda di pronuncia pregiudiziale (Sentenza, punto 35). Per essere considerata ricevibile, questa volta, la domanda dovrebbe essere quanto più possibile conforme a siffatte indicazioni della Corte UE, puntualizzate in una sorta di elenco sviluppato ai punti 21-33 della Sentenza.

Ci si intende soffermare proprio su tale elenco di carenze da cui sarebbe affetto il provvedimento di rinvio, in quanto la Sentenza rappresenta un caso piuttosto emblematico di dichiarazione di irricevibilità di una domanda di pronuncia pregiudiziale nella misura in cui raggruppa contestualmente diversi argomenti utilizzati dal giudice UE per giustificare la propria impossibilità a pronunciarsi in sede di rinvio pregiudiziale interpretativo. Il caso è ancor più rilevante se si considera che tale rifiuto è destinato a una giurisdizione nazionale di ultima istanza.

Orbene, muovendo dal presupposto che l’interpretazione in via pregiudiziale debba sempre avere un effetto utile ai fini della definizione, da parte del giudice nazionale, della procedura instaurata dinanzi a esso (come peraltro sottolineato al punto 22 della Sentenza), la Corte di giustizia ha innanzitutto ricordato che il procedimento previsto dall’art. 267 TFUE rappresenta uno strumento di cooperazione tra i due livelli di giurisdizione (Sentenza, punto 20), e ha posto le premesse della motivazione per cui la stessa non si è dichiarata in grado di pronunciarsi sulla domanda. In sintesi, si è da subito sollevato il dubbio che tale cooperazione da parte del giudice nazionale sia stata quantomeno carente nel rendere i giudici UE sufficientemente edotti delle questioni oggetto del rinvio pregiudiziale.

Nei punti successivi, la Corte ha poi adottato un approccio certamente variegato per il numero di argomenti proposti, ma “tradizionale” nella misura in cui ha utilizzato categorie consolidate di motivi di irricevibilità di cui si è avvalsa spesso nella sua giurisprudenza precedente. Tra tali categorie rientra, in primo luogo, la mancata descrizione delle ragioni per cui la Corte di Cassazione aveva chiesto l’interpretazione pregiudiziale alla CGUE degli artt. 101, 102, 120 e 173 TFUE e, conseguentemente, il difetto di nessi di collegamento che il giudice italiano avrebbe ravvisato tra tali disposizioni UE e la normativa nazionale applicabile alla controversia (Sentenza, punto 25). In secondo luogo, in relazione all’art. 63 TFUE, sulla cui rilevanza il giudice del rinvio si era invece soffermato, la Corte di Lussemburgo si avvale dell’argomento relativo alla natura «puramente interna» della controversia pendente dinanzi alla Corte di Cassazione (in ragione del fatto che, secondo quanto riportato nella domanda di pronuncia pregiudiziale, tutti gli elementi della controversia di cui al procedimento principale si collocano all’interno di un unico Stato membro, ossia l’Italia), proprio in base all’assenza della precisazione del suddetto elemento di collegamento che dovrebbe «fare emergere gli elementi concreti – vale a dire indizi non ipotetici, ma certi – che consentano di accertare, in modo positivo, l’esistenza di tale collegamento» (Sentenza, punto 28 che richiama la sentenza Bursa Română de Mărfuri SA e la giurisprudenza ivi citata, tra cui spicca la nota sentenza Ullens de Schooten, in particolare i punti 54-55). In questi termini, la Cassazione sarebbe venuta meno a quello che in dottrina è stato – a giusto titolo – definito quale «obbligo rinforzato di motivazione» (C. Iannone, 2018, p. 260), nel non avere fornito «alcun elemento concreto che permetta di confermare un interesse da parte dei soggetti di altri Stati membri a far uso della libertà di circolazione dei capitali nella situazione oggetto del procedimento principale» (Sentenza, punto 29) potenzialmente discendente dall’art. 63 TFUE. Infine, rispetto all’interpretazione dello specifico atto di diritto derivato indicato dal giudice italiano, la citata direttiva 2008/7, che declinerebbe il principio della libera circolazione dei capitali per quanto di attinenza alla controversia sul piano nazionale, la Corte si riferisce genericamente a «incertezze» (Sentenza, punto 32) derivanti, inter alia, dalla mancata interpretazione, da parte della Cassazione, della nozione di «società di capitali» inclusa nella direttiva 2008/7 e della sua applicabilità alla situazione di diritto in cui versava Ente Cambiano dopo avere esercitato l’opzione di «way out» (Sentenza, punto 31). Una siffatta attività interpretativa non potrebbe infatti che spettare al giudice nazionale, se non altro per esclusione, giacché la Corte di giustizia ha il mero potere di interpretare il diritto dell’Unione nell’ambito del meccanismo di cui all’art. 267 TFUE, lasciando al giudice nazionale il compito di applicare tale diritto (P. Biavati, Diritto processuale dell’Unione europea, Milano, 2015, p. 418) e di valutare se quest’ultimo si applichi o meno a una fattispecie riconoscendo, ove necessario (come nel caso di specie), che la parte di un contenzioso rientra nella definizione fornita da una direttiva e dunque nel relativo campo di applicazione.

Tuttavia, quel che sorprende della Sentenza in esame è che, pur avvalendosi di molteplici temi che ricorrono spesso nella giurisprudenza UE a fondamento delle pronunce di irricevibilità (cfr. D. Domenicucci, 2013), essa non si è spinta ad utilizzare il più “semplice” degli strumenti tradizionali, consistente nel dichiarare la manifesta irrilevanza delle questioni pregiudiziali proposte ai fini della soluzione della causa principale, il che sarebbe stato dirimente nella successiva interpretazione della Corte di Cassazione. Invero, laddove la questione pregiudiziale fosse stata reputata manifestamente irrilevante, il giudice nazionale del rinvio non si troverebbe attualmente nella posizione di poterne (o doverne) valutare una nuova (e riformulata) presentazione. Tale ipotesi sembrerebbe invero confermata dal fatto che la stessa Corte ha ritenuto che la direttiva 2008/7 si applicherebbe alla controversia nazionale quantomeno ratione materiae (Sentenza, punto 31), non essendo però chiaro, sulla base della formulazione del giudice di rinvio, se la stessa sia applicabile altresì ratione personae alla luce della mancata identificazione di Ente Cambiano quale «società di capitali» ai sensi della medesima direttiva.

Quanto sopra, unitamente all’implicito invito della Corte al giudice nazionale a considerare di riformulare e riadottare un provvedimento di rinvio, farebbe perciò pensare che, una volta proceduto a una ristrutturazione dello stesso, aderendo rigorosamente ai criteri di cui all’art. 94 del regolamento di procedura della Corte e alle raccomandazioni della Corte all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale richiamate esplicitamente dalla Sentenza (punto 23), una risposta interpretativa al quesito pregiudiziale posto dalla Corte di Cassazione potrebbe essere effettivamente necessaria e utile ai fini della soluzione del contenzioso nazionale.

Per evitare il rimpallo al giudice nazionale, ci si chiede però se, soprattutto dopo avere ammesso l’applicabilità della direttiva 2008/7 ratione materiae e non averne esclusa espressamente l’applicabilità ratione personae, la Corte non avrebbe magari potuto avvalersi dello strumento di cui all’art. 101 del regolamento di procedura, che, in un’ottica di piena collaborazione con i giudici nazionali, prevede la possibilità per la CGUE di chiedere chiarimenti al giudice del rinvio. Nonostante tale facoltà sia sempre stata utilizzata con parsimonia ed essenzialmente impiegata come extrema ratio all’insufficienza di elementi determinanti la sua ricevibilità (D. Domenicucci, cit.), giacché, come peraltro affermato dall’Avvocato generale Wahl, nelle sue conclusioni nelle cause riunite Venturini (paragrafi 60-61), l’ordinanza di rinvio «dovrebbe essere un documento autosufficiente», la Corte vi ha fatto effettivamente ricorso in alcune circostanze e anche in occasione di una domanda di rinvio pregiudiziale presentata dal Consiglio di Stato italiano, vale a dire dal giudice amministrativo nazionale di ultima istanza (v. AGCM – Antitrust e Coopservise, punto 32), in una situazione che, almeno per quest’ultimo aspetto, presentava profili analoghi rispetto a quella oggetto del presente contributo.

Nel contesto delle circostanze che qui interessano, anche di natura processuale, la Corte di giustizia avrebbe forse potuto fornire maggiori elementi di aiuto, non solo nell’ottica collaborativa tra giurisdizioni, ma altresì in una prospettiva di economia processuale. A tal proposito si rileva come, avendo sostanzialmente riconosciuto l’utilità della risposta al quesito pregiudiziale, e provenendo quest’ultimo da una giurisdizione nazionale di ultima istanza – perciò soggetta all’obbligo di cui all’art. 267, par. 3, TFUE –, la Corte avrebbe potuto agire con uno spirito ancor più cooperativo per agevolare la più rapida definizione del procedimento italiano. Quest’ultimo, invece, nell’eventualità di una nuova ordinanza di rinvio pregiudiziale da parte della Corte di Cassazione italiana, subirà inevitabilmente un allungamento dei tempi, in attesa della (nuova) pronuncia della Corte di giustizia. Si ritiene che tale scenario sia altamente probabile, dal momento che il giudice italiano, alla luce della breccia aperta dal punto 31 della Sentenza in tema di applicabilità ratione materiae e ratione personae della direttiva 2008/7, si troverà presumibilmente in difficoltà nel non proporre una nuova domanda di pronuncia pregiudiziale ai giudici di Lussemburgo, con un quesito debitamente riformulato.