La sentenza n. 181 del 2024 della Corte costituzionale: una svolta nei rapporti tra ordinamento italiano e diritto dell’Unione europea?

Corte cost., sentenza del 19 novembre 2024, n. 181

L’arrêt n. 181 du 2024 de la Cour constitutionelle: un tournant dans le relations entre le droit italien e le droit de l’Union européenne?

Judgment No. 181 of 2024 of the Constituional Court: a turn in the relationship between the Italian legal order and EU Law?

 

Con la sentenza del 30 ottobre 2024 (depositata il 19 novembre) n. 181, la Corte costituzionale ha compiuto un nuovo passo nella sua giurisprudenza relativa ai rapporti tra ordinamento nazionale e ordinamento dell’Unione europea.

La pronuncia trae origine da una rimessione della prima sezione del Consiglio di Stato in sede di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica promosso da diverse ricorrenti, le quali avevano impugnato gli atti relativi alla procedura concorsuale per la copertura dei posti di ispettore del Corpo della Polizia penitenziaria, a seguito della loro esclusione dalla graduatoria finale in ragione del sesso a prescindere da ogni considerazione relativa ai risultati ottenuti nella valutazione dei titoli e nell’espletamento delle prove. Difatti, la graduatoria rifletteva le disposizioni di legge (art. 44, commi da 7 a 11, decreto legislativo n. 95 del 2017, l’allegata tabella A e la tabella 37 allegata al decreto legislativo n. 443 del 1992) che riservano la larga maggioranza dei posti in dotazione organica al sesso maschile, relegando solo una marginalissima quota alle donne.

Dunque, il Consiglio di Stato lamentava una violazione, da parte delle citate disposizioni, sia dell’art. 3 Cost., sia dell’art. 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in riferimento a plurime disposizioni sovranazionali quali la direttiva 76/207/CEE, gli artt. 3, par. 2 TUE e 8 TFUE, gli artt. 21 e 23 CdfUE e, infine, la direttiva 2000/78/CE.

L’importanza della pronuncia va rinvenuta non solo nei profili di merito quali brevemente tratteggiati, ma anche nella relazione che, nei casi di conflitto tra la norma interna e quella dell’Unione europea direttamente efficace, la Corte costituzionale instaura tra disapplicazione (o come essa la definisce “non applicazione”) e sindacato accentrato di costituzionalità.

La Corte costituzionale, infatti, in linea con le precisazioni intervenute dopo il famoso obiter dictum di cui alla sentenza n. 269/2017, svolge argomentazioni nuove in merito alla sussistenza della rilevanza della questione di legittimità costituzionale (di seguito, “q.l.c.”), aprendo la strada a rilevanti puntualizzazioni in tema di rapporti tra ordinamenti.

La Consulta esordisce ricordando che la propria giurisprudenza relativa alla “doppia pregiudiziale” si traduce in un modello teso alla valorizzazione della scelta del giudice il quale, nell’ipotesi di conflitto tra una norma interna e una dell’Unione europea direttamente efficace è posto dinanzi ad un bivio le cui strade non sono in “antitesi” né tra le quali sussiste un «ordine di priorità»: da una parte, la non applicazione; dall’altra parte, una q.l.c. ex artt. 117, comma 1, e 11 Cost. (v. punti 6.1 e 6.2 Considerato in diritto).

Assai preziosa risulta la precisazione della Corte costituzionale, la quale ricorda che sistemi di controllo “diffuso” e “accentrato” rispetto alla compatibilità della normativa interna al diritto dell’Unione possono convivere, a patto che i meccanismi nazionali di sindacato di costituzionalità non privino il giudice del potere di non applicazione e della possibilità di rivolgersi alla Corte di giustizia per via dell’art. 267 TFUE (punto 6.2 Considerato in diritto).

Tuttavia, dopo aver ricordato assunti già patrimonio della propria giurisprudenza, la Consulta aggiunge un tassello che non si rinviene negli episodi precedenti in materia di “doppia pregiudiziale”. Difatti, si legge che «[a]llorchè, invece, si censura la violazione dell’art. 117, primo comma Cost., l’aspetto essenziale è che la legge non ha osservato un “obbligo comunitario” ed è, per questa ragione, costituzionalmente illegittima» (punto 6.3 Considerato in diritto). Nella prospettiva dei giudici di Piazza del Quirinale, in sostanza, l’obbligo “comunitario” dello Stato viene disatteso ogni qual volta la norma interna contrasti sia con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sia quando «il conflitto riguarda un’altra normativa del diritto dell’Unione» (punto 6.3 Considerato in diritto).

Sino a qui, nulla quaestio. Ma dopo tale affermazione, la Consulta esplicita quella che essa ritiene la logica conseguenza della violazione di tale obbligo. Infatti, a nulla rilevando che la norma sovranazionale sia la Carta di Nizza o altra fonte, primaria o derivata, dell’Unione, né la sua natura «direttamente applicabile», la Corte costituzionale ritiene superato il vaglio sulla rilevanza ed entra nel merito quando «la questione posta dal remittente presenti un “tono costituzionale”, per il nesso con interessi o principi di rilievo costituzionale» (punto 6.3 Considerato in diritto).

Dopo aver rammentato che «[s]arà il giudice a scegliere il rimedio più appropriato, ponderando le peculiarità della vicenda sottoposta al suo esame» (punto 6.5 Considerato in diritto), la Consulta non si astiene dall’indicare i vantaggi del sindacato di costituzionalità, richiamando interamente l’inciso della sentenza n. 15/2024 nel quale si legge che il controllo della Corte può offrire un «surplus di garanzia al primato del diritto dell’Unione europea, sotto il profilo della certezza e della sua uniforme applicazione» (punto 6.5 Considerato in diritto).

Ed è proprio nell’argomentare le virtù del valore erga omnes della propria sentenza che il giudice costituzionale elenca una serie di situazioni “patologiche”, le quali dovrebbero suggerire al giudice “comune” di propendere per la rimessione di una q.l.c., relative per un verso all’ordinamento nazionale e per altro verso al diritto dell’Unione.

Infatti, in primo luogo si legge che «[l’]interlocuzione con questa Corte […] si dimostra particolarmente proficua, qualora l’interpretazione della normativa vigente non sia scevra di incertezze o la pubblica amministrazione continui ad applicare la disciplina controversa o le questioni interpretative siano foriere di un impatto sistemico, destinato a dispiegare i suoi effetti ben oltre il caso concreto, oppure qualora occorra effettuare un bilanciamento tra principi di carattere costituzionale» (punto 6.5 Considerato in diritto). In secondo luogo, qualora sussista un dubbio sulla natura direttamente efficace della norma dell’Unione o sulla percorribilità della non applicazione ‒ opzione che in talune fattispecie può essere «opinabile e soggetta a contestazioni» (punto 6.5 Considerato in diritto) ‒ il sindacato di costituzionalità rappresenta lo strumento utile per fugare ogni incertezza.

In sostanza, giovandosi di una sentenza dagli effetti erga omnes che travalicano il singolo caso, il giudizio di costituzionalità consente, nella prospettiva della Corte costituzionale, di garantire il valore, «di sicuro rilievo costituzionale», della certezza del diritto, laddove la non applicazione non sempre consente di raggiungere un sistematico e coerente adeguamento dell’ordinamento italiano al diritto dell’Unione europea (v. punto 6.5 Considerato in diritto). Un ruolo della Consulta che ‒ a sua detta ‒ sarebbe stato valorizzato dalla stessa Corte di giustizia nella sentenza del 2 settembre 2021, causa C-350/21, O.D.

Applicando tali principi nel caso di specie, la rimessione del Consiglio di Stato relativa ad una irragionevole discriminazione diretta basata sul sesso perpetuata dalla normativa nazionale si dimostra, allora, paradigmatica del “tono costituzionale” che legittima la Consulta a trattenere la questione, nonostante il venire in rilievo di plurime norme “comunitarie” direttamente efficaci (in particolare, l’art. 14, direttiva 2006/54/CE; art. 21 CdfUE). Del resto, nelle parole della Consulta, la direttiva 2006/54/CE «investe principi fondamentali nel disegno costituzionale e con tali principi interagisce nel sindacato che questa Corte è chiamata a svolgere al metro dell’art. 3 Cost.» (punto 6.3 Considerato in diritto). Così, la scelta del Supremo giudice amministrativo ben si giustifica sulla base delle esigenze di certezza del diritto che emergono dai contorni fattuali e giuridici della vicenda: la discriminazione realizzata dalla diversa allocazione, tra uomini e donne, nelle dotazioni organiche della polizia penitenziaria riguardano una numerosa platea di persone, con la conseguenza di un contenzioso importante (v. punto 6 Considerato in diritto).

Così superato il vaglio di rilevanza, la questione viene ritenuta fondata per violazione dell’art. 3 Cost. e delle fonti dell’Unione europea, tra le quali viene riservato rilievo preminente all’art. 14, par. 2, della direttiva 2006/54/CE ‒ parametro correttamente individuato dalla Consulta, giacché tale ultima direttiva non veniva neppure invocata dal remittente ‒ il quale consente deroghe al principio di parità di trattamento tra donne e uomini nell’accesso al lavoro di cui all’art. 14, par. 1, lett. a), ma solo se una caratteristica specifica del sesso sia richiesta dalla natura dell’attività lavorativa e dal contesto in cui essa viene esercitata, talché essa rappresenta un requisito essenziale e determinante per il suo svolgimento, purché tale deroga persegua un obiettivo legittimo e il requisito sia proporzionato.

La sentenza n. 181/2024 sarà senz’altro oggetto di dibattito, come del resto accaduto ai precedenti episodi in cui la Corte costituzionale è intervenuta sui rapporti tra l’ordinamento interno e quello dell’Unione europea. Ciò che caratterizza tale pronuncia è il suo tentativo di compiere un ulteriore passo e fare una qualche chiarezza rispetto alla giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, come detto, a partire dall’obiter dictum della sentenza n. 269/2017.

Dalla decisione emerge una piena complementarietà tra la non applicazione e la rimessione alla Corte costituzionale, anche nel caso in cui la norma dell’Unione europea sia direttamente efficace: «entrambi i rimedi garantiscono il primato del diritto dell’Unione, uno dei capisaldi dell’integrazione europea, riconosciuto fin dalle prime pronunce della Corte di giustizia e poi dalla giurisprudenza di questa Corte» (punto 6.2 Considerato in diritto). Sulla base di tale assunto, sono due le principali novità che emergono ad una prima lettura.

In primo luogo, la Consulta chiarisce definitivamente che non rileva la fonte da cui promana la norma di diritto dell’Unione europea invocata: ciò che importa è il “tono costituzionale” della questione. Tale passaggio scardina il limes originario della sentenza n. 269/2017 (più di recente rinsaldato dalla sentenza n. 67/2022) che confinava la “doppia pregiudiziale” all’ipotesi in cui la norma interna violasse un diritto fondamentale tutelato, in pari tempo, dalla Costituzione e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (o eventualmente da una norma di diritto derivato «in singolare connessione» con quest’ultima, v. sentenza n. 20/2019; ordinanza n. 182/2020; sentenza n. 54/2022; sentenza n. 149/2022). In sostanza, tale precisazione sembra preludere ad una possibile espansione del sindacato della Consulta oltre il perimetro della versione tradizionale della “doppia pregiudizialità” come ridefinita a partire dalla sentenza n. 269/2017, con la conseguenza di mettere in dubbio l’impianto stesso della giurisprudenza Granital, a mente della quale se la q.l.c. include come parametro interposto una norma “comunitaria” direttamente applicabile o dotata di effetto diretto, l’esito non può che essere la sua inammissibilità, dovendo il giudice ordinario procedere alla disapplicazione della norma nazionale.

In secondo luogo, la Corte costituzionale esplicita i vantaggi di una sentenza di illegittimità costituzionale (erga omnes) in luogo della non applicazione, mostrando il tentativo di orientare il giudice “comune” a scegliere la strada del controllo accentrato.

Ad una prima lettura, non sorprende tanto che la Corte avanzi argomenti relativi a “patologie” dell’ordinamento nazionale rispetto all’adeguamento al diritto dell’Unione europea ‒ quali orientamenti giurisprudenziali difformi, recalcitranti amministrazioni, normative nazionali oscure e complesse ‒ quanto che si spinga sino a suggerire al giudice la rimessione di una q.l.c. nei casi in cui «sussista un dubbio sull’attribuzione di efficacia diretta al diritto dell’Unione e la decisione di non applicare il diritto nazionale risulti opinabile e soggetta a contestazioni (punto 6.5 Considerato in diritto, enfasi aggiunta)». Infatti, nella prospettiva della Corte costituzionale, in ogni caso quest’ultima «potrà dichiarare fondata la questione di legittimità costituzionale, se accerta l’esistenza del conflitto tra la normativa nazionale e le norme dell’Unione, indipendentemente dalla circostanza che queste siano dotate di efficacia diretta» (punto 6.5 Considerato in diritto).

In tale passaggio emerge come il tentativo della Consulta di chiarire i confini della “doppia pregiudiziale” rischi di tramutarsi in un ripensamento di Granital, scomparendo di fatto la dictonomia tra norme sovranazionali direttemente efficaci e non, che ha perimetrato la ripartizione dei compiti tra la Corte costituzionale e i giudici “comuni” negli ultimi quarant’anni. Peraltro, non può sfuggire che la potenziale svolta è accompagnata da una criticità ulteriore rispetto al diritto dell’Unione europea, nella misura in cui apertamente viene suggerito al giudice di rivolgersi alla Consulta anche quando la diretta efficacia della norma “comunitaria” non sia chiara e dubbi sorgano sulla concreta percorribilità della disapplicazione.

Ebbene, in tale evenienza le giurisdizioni nazionali hanno già uno strumento la cui ratio è quella di garantire la corretta ed uniforme interpretazione del diritto sovranazionale, a cui le stesse possono (quando non devono) fare ricorso. Tale strumento è, ovviamente, il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia (art. 267 TFUE), «chiave di volta» del sistema di tutela giurisdizionale dei trattati (su tutti, parere della Corte di giustizia, 18 dicembre 2014, 2/13, punto 176).

Non ci si può non chiedere se la Corte costituzionale non si sia spinta in un terreno dove potrebbe incontrarsi –  e scontrarsi – con la Corte di giustizia.

Alle lettrici e ai lettori monitorare le prossime tappe di un “cammino comunitario” sul quale la Consulta sta procedendo a passi decisi, sperando non in direzione del passato (pre-Granital).