Article 99(3) c.p.a. between Constraint and Persuasion. Considerations Based on a Recent Judgment of the Regional Administrative Court of Lecce on beach concessions
Regional Administrative Court of Lecce, 2 November 2023, No. 1223
L’art. 99, comma terzo, c.p.a. tra vincolo e persuasione. Considerazioni a partire da una recente sentenza del TAR Lecce in materia di concessioni balneari
L’article 99, troisième alinea, c.p.a. entre lien et persuasion. Considérations tirées d’un arrêt récent du Tribunal de Lecce en matière de concessions balnéaires
Considerazioni introduttive
Benché siano al centro del dibattito giuridico (e politico) oramai da molti anni, le concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali ad uso turistico-ricreativo (i.e. concessioni balneari) continuano a riservare interessanti colpi di scena.
La sentenza in commento ne è un esempio, atteso che qui il collegio si è pronunciato in senso manifestamente contrario a quanto statuito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato in alcuni passaggi delle sentenze gemelle n. 17 e n. 18 del 2021. Vale a dire, le sentenze con cui il supremo consesso della giustizia amministrativa aveva inteso risolvere un contrasto giurisprudenziale originato proprio dal Tar Lecce, il quale – già dal 2020 (si v. Tar Puglia, Lecce, I sez., 27 novembre 2020 n. 1321) – in una serie di pronunce, sempre in materia di concessioni balneari, si era orientato nel senso di negare il dovere del funzionario amministrativo di non applicare (i.e. disapplicare) una norma interna in contrasto con il diritto dell’Unione europea (i.e. art. 1, commi 682 e 683, L. 30 dicembre 2018 n. 145. Per un commento si v. C. Feliziani, Norma interna in contrasto con il diritto europeo, doveri del funzionario pubblico e sorte del provvedimento amministrativo “antieuropeo”, in Dir. proc. amm., 2022, 2, 460 ss.).
Come si metterà meglio in rilievo infra, il rilevato contrasto tra la sentenza che si annota e i precedenti arresti dell’Adunanza Plenaria, pur non investendo lo specifico profilo menzionato da ultimo (i.e. disapplicazione della norma interna in contrasto con il diritto europeo), interessa alcuni importanti aspetti della disciplina delle concessioni balneari ugualmente affrontati dai giudici di Palazzo Spada nel 2021.
Tanto spinge dunque ad interrogarsi – specie alla luce del dettato dell’art. 99 c.p.a., declinato anche quale strumento di nomofilachia funzionale alla interpretazione del diritto dell’Unione europea – sul valore che le pronunce dell’Adunanza Plenaria recano nel nostro ordinamento e sulla loro attitudine a conformare o meno i successivi pronunciamenti del giudice amministrativo, nonché – più in generale – sulla appropriatezza, in punto di diritto e finanche di politica del diritto, di una tale discrasia in una vicenda particolarmente controversa come quella de qua.
Le concessioni balneari tra giudici amministrativi, Corte di giustizia e Corte di Cassazione
Prima di affrontare funditus tale questione, giova tuttavia dare conto del fatto che tra il 2021 e il 2023 la materia delle concessioni balneari – seppur per profili in parte diversi – è stata oggetto di una molteplicità di giudizi instaurati non solo dinanzi al giudice amministrativo, ma anche dinanzi alla Corte di giustizia e alla Corte di Cassazione. Posto che ciascuno di tali giudizi reca significative implicazioni nell’economia complessiva della vicenda, si rende opportuno ricostruire brevemente quanto accaduto, anche al fine di offrire delle coordinate utili in ordine ai rapporti tra le diverse giurisdizioni coinvolte.
Nel fare ciò, occorre innanzitutto muovere dal ricordare che – nel novembre 2021 – l’Adunanza Plenaria si è pronunciata sui quesiti che le erano stati rivolti con il decreto di rimessione ex art. 99, comma 2, c.p.a., affermando che: i) le norme nazionali che dispongono «(e che in futuro dovessero ancora disporre) la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative […] sono in contrasto» con l’art. 49 TFUE e con l’art. 12 direttiva 2006/123/Ce. «Tali norme, pertanto, non devono essere applicate né dai giudici né dalla pubblica amministrazione»; ii) i provvedimenti di proroga medio tempore rilasciati sulla base delle norme nazionali in contrasto con il diritto europeo sono da considerarsi tamquam non essent; iii) onde evitare gli effetti pregiudizievoli, specie di ordine socio-economico, che deriverebbero «da una decadenza immediata e generalizzata di tutte le concessioni in essere», queste ultime «continuano ad essere efficaci sino al 31 dicembre 2023, fermo restando che, oltre tale data, anche in assenza di una disciplina legislativa, esse cesseranno di produrre effetti, nonostante qualsiasi eventuale ulteriore proroga legislativa che dovesse nel frattempo intervenire», la quale andrebbe disapplicata perché in contrasto con il diritto europeo.
Così decidendo, il supremo consesso di giustizia amministrativa si è espresso dunque nel senso della necessità di assegnare le concessioni balneari tramite gara per un tempo non eccessivamente lungo e, comunque, parametrato agli investimenti. E tanto sulla base dell’assunto della scarsità della risorsa da assegnare (v. par. 25) e della sussistenza di un interesse transfrontaliero certo (v. par. 17).
A quanto precede si deve poi aggiungere che dette sentenze gemelle hanno tratto origine da altrettante vicende processuali, concernenti la legittimità di due dinieghi di proroga di concessioni balneari, su cui si erano già pronunciati il Tar Lecce e il Tar Catania con due sentenze, di opposto tenore, successivamente impugnate dinanzi ai rispettivi giudici di appello. Tuttavia, poiché l’Adunanza Plenaria si è espressa solamente in ordine ai quesiti di diritto che le erano stati posti, la definizione nel merito delle due controversie è stata rimessa nuovamente ai rispettivi giudici a quibus, i quali hanno deciso i giudizi adeguandosi a quanto statuito dal supremo consesso di giustizia amministrativa: Cons. Stato, VII, 23 maggio 2022 n. 4072 (v. spec. parr. 6, 7, 11 e 14) e CGA 24 gennaio 2022 n. 116 (v. spec. parr. 12, 13, 14).
Non di meno – come anticipato – pur a seguito dell’intervento dell’Adunanza Plenaria, altri due plessi giurisdizionali sono stati investiti della questione.
Infatti, per un verso, il Tar Lecce, ai fini della decisione del caso de quo, ha ritenuto necessario sospendere il giudizio e proporre dinanzi alla Corte di giustizia un rinvio pregiudiziale di validità e di interpretazione (i.e. Tar Puglia, Lecce, I sez., ord., 5 maggio 2022 n. 743) e, per altro verso, una delle sentenze gemelle dell’Adunanza Plenaria è stata impugnata con ricorso in Corte di Cassazione ex art. 111, comma 8, Cost.
Entrambe le Corti si sono medio tempore pronunciate con due sentenze che – per le ragioni che tra breve si diranno – sembrano imprimere alla vicenda in parola direzioni opposte.
Andando con ordine, il giudice di Lussemburgo si è pronunciato sulla causa C-348/22 con sentenza del 20 aprile 2023, la quale – oltre a porsi in una linea di continuità con la pregressa giurisprudenza della Corte (si v. spec. la sentenza relativa al caso Promoimpresa s.r.l., C-458/14 e C-67/15) – mostra sostanzialmente di condividere gli approdi cui era pervenuta l’Adunanza Plenaria nel 2021 (si v. amplius C. Feliziani, A proposito del dovere della pubblica amministrazione di non applicare una norma nazionale in contrasto con il diritto europeo: la Corte di Lussemburgo conferma l’Adunanza plenaria, in corso di pubblicazione in Dir. proc. amm., 2023, 4).
La Corte di giustizia infatti: i) ha respinto il quesito di validità della direttiva servizi (par. 59); ii) ha riaffermato il dovere anche della pubblica amministrazione (oltre che del giudice) di non applicare una norma nazionale in contrasto con il diritto europeo (par. 77); ii) ha ricordato che l’art. 12, par. 1 e par. 2, della direttiva servizi si applica, nella materia de qua, anche con riguardo a situazioni di rilievo puramente interno, ossia dove non si rinviene un interesse transfrontaliero (v. par. 41); iii) ha precisato che – ai fini della verifica della scarsità o meno della risorsa ex art. 12, par. 1, della direttiva servizi – gli Stati membri sono liberi di seguire un criterio nazionale o locale come anche entrambi, la sola imprescindibile condizione essendo che tale verifica venga effettuata sulla base di «criteri obiettivi, non discriminatori, trasparenti e proporzionati» (v. par. 48); iv) ha chiarito il carattere self-executing delle disposizioni di cui all’art. 12, par. 1 e par. 2, della direttiva servizi (par. 66 ss.). In particolare, «[l]a circostanza che [i citati paragrafi 1 e 2] si applichino solo nel caso in cui il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali utilizzabili, le quali devono essere determinate in relazione ad una situazione di fatto valutata dall’amministrazione competente sotto il controllo di un giudice nazionale, non può rimettere in discussione l’effetto diretto connesso a tale articolo 12, paragrafi 1 e 2» (par. 71).
La Corte di Cassazione, invece, si è pronunciata a Sezioni Unite con sentenza del 23 novembre 2023 accogliendo il primo motivo di ricorso e ritenendo assorbiti tutti gli altri. Nella specie, le Sezioni Unite hanno accolto il motivo con il quale il Sindacato Italiano Balneari (SIB) ha dedotto l’illegittimo diniego di giurisdizione da parte dell’Adunanza Plenaria per avere quest’ultima ritenuto inammissibile l’intervento in giudizio del SIB e di altri soggetti.
In disparte la motivazione della sentenza e l’effettiva riconducibilità del caso di specie ad un’ipotesi di diniego di giurisdizione, ciò che importa in questa sede sottolineare è il fatto che – così decidendo – la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza impugnata con rinvio al Consiglio di Stato, al quale dunque – si legge nel decisum delle Sezioni Unite – spetterà «pronunciarsi nuovamente, anche alla luce delle sopravvenienze legislative, avendo il Parlamento e il Governo esercitato, successivamente alla sentenza impugnata, i poteri loro spettanti» (par. 18).
Il riferimento è qui chiaramente, oltre che al Tavolo tecnico istituito dall’art. 10-quater del c.d. decreto Milleproroghe e al lavoro sulla scarsità che ne è scaturito, alle previsioni del medesimo decreto, conv. con modifiche in L. n. 14/2023, che hanno esteso di un anno (i.e. fino al 31 dicembre 2024 e, in ipotesi eccezionali, fino al 31 dicembre 2025) il termine del 31 dicembre 2023 indicato dall’Adunanza Plenaria e successivamente fatto proprio dall’art. 3 della Legge annuale per il mercato e la concorrenza del 2021. Vale a dire, le previsioni che in sostanza hanno introdotto una nuova proroga delle concessioni balneari e che, proprio per questo, sono già state oggetto di censura sia da parte del Consiglio di Stato, sia – più di recente – da parte della Commissione europea in sede di aggravamento della procedura di infrazione pendente (i.e. P.I. n. 2020/4118, aperta il 3 dicembre 2020 e aggravata con parere motivato del 16 novembre 2023. In argomento, si v. C. Burelli, Le concessioni turistico-ricreative tra vincoli “comunitari” e normativa italiana: criticità e prospettive, in Dir. un. eur., 2021, 2, 247 ss.).
È evidente dunque che la sentenza delle Sezioni Unite, pur non entrando per ovvie ragioni nel merito della disciplina delle concessioni balneari, è comunque suscettibile di avere un qualche impatto sulla materia, se non altro nel senso di alimentarne lo stato di incertezza. Pe contro, sembra verosimile che il Consiglio di Stato non si discosterà dall’orientamento già espresso nella sentenza cassata dai giudici di Piazza Cavour. E tanto, a maggior ragione, in virtù di quanto affermato dalla Corte di giustizia nella richiamata sentenza del 20 aprile 2023 e dei rilievi fortemente critici contenuti nel recente parere motivato.
I fatti di causa e lo “strappo” con l’Adunanza Plenaria
Così ricostruito il puzzle di pronunce che hanno interessato la materia delle concessioni balneari nell’ultimo biennio, sembra ora possibile passare a mettere in luce i profili di discrasia tra la sentenza che si annota e le sentenze gemelle dell’Adunanza Plenaria.
Il giudizio de quo trae origine dal ricorso presentato dall’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato (AGCM) per l’annullamento di una delibera del Comune di Ginosa recante «Legge n. 145/2018 art. 1, commi 682 e 683 – D.L. n. 34/2020 conv. nella Legge n. 77/2020 art. 182, comma 2 e s.m.i. – Richieste di proroga concessioni demaniali marittime. Atto di indirizzo». A tale ricorso ha fatto poi seguito la proposizione – sempre da parte dell’AGCM – di motivi aggiunti con i quali sono stati impugnati un’altra delibera della Giunta comunale e due provvedimenti di proroga di concessioni balneari.
Come anticipato, il Tar Lecce si è pronunciato nel merito del ricorso dopo che la Corte di giustizia si è espressa sul rinvio pregiudiziale di validità e di interpretazione promosso dal medesimo giudice nel giudizio a quo.
Benchè – come sottolineato poc’anzi – la Corte di Lussemburgo sembri essersi posta nel solco tracciato dall’Adunanza Plenaria, il Tar Lecce ha ritenuto di poter leggere nelle righe di tale sentenza degli argomenti utili a prendere le distanze dal decisum del supremo consesso di giustizia amministrativa.
Nella specie, lo strappo si è consumato intorno al concetto di “scarsità della risorsa” e al termine di scadenza delle concessioni balneari in essere.
Quanto al primo aspetto, mentre l’Adunanza Plenaria aveva affermato che la risorsa naturale oggetto di concessione balneare è sempre scarsa e pertanto deve sempre essere assegnata con gara (par. 25), secondo il Tar Lecce «appare evidente che la Corte di giustizia, innovativamente e per la prima volta, abbia individuato la valutazione della scarsità delle risorse naturali disponibili come preliminare accertamento, al cui esito risulta subordinata espressamente l’applicabilità stessa dell’articolo 12, par. 1 e 2 della direttiva». Preliminare accertamento che – prosegue poco oltre il collegio – compete allo «Stato-amministrazione (…), restando pertanto preclusa la legittimità di una valutazione o declaratoria tout court della scarsità della risorsa ad opera del Giudice nazionale in via generale ed astratta» (par. 8).
Quanto invece al secondo aspetto, il Tar Lecce ha affermato che il termine di scadenza originariamente fissato dall’Adunanza Plenaria al 31 dicembre 2023 non può essere condiviso, in quanto lo stesso si presentava già ab origine come troppo breve, non tenendo conto delle tempistiche necessarie ad assolvere ad «un significativo step, quale quello relativo alla valutazione della scarsità della risorsa» (par. 12), ragione per la quale detto termine «è stato differito alla data del 31 dicembre 2024» dalla Legge di conversione del decreto Milleproroghe (par. 11): pertanto, la «statuizione del termine di cessazione di efficacia al 31.12.2023, a prescindere da ogni altra considerazione, non può ritenersi […] prevalente sulla norma successiva, che peraltro risulta invece del tutto coerente con le precisazioni innovative contenute nella sentenza della CGUE e non integra quindi gli estremi di una mera ed ingiustificata proroga automatica, vietata dal’art.12 par 1 e 2 della direttiva» (par. 12).
Così argomentando, il Tar Lecce ha concluso pertanto nel senso della improcedibilità del ricorso per sopravvenuto difetto di interesse (par. 11).
L’art. 99, comma terzo, c.p.a. tra vincolo e persuasione
Alla luce di quanto precede, si pone la questione della attitudine delle sentenze dell’Adunanza Plenaria a conformare o meno i successivi pronunciamenti del giudice amministrativo, garantendo, nella specie, l’uniforme interpretazione e applicazione del diritto dell’Unione europea in una materia estremamente controversa.
Al riguardo, punto di riferimento per quanto si sta per dire è l’art. 99 c.p.a., recante Deferimento all’Adunanza Plenaria e qui in particolare il suo comma terzo.
In proposito, occorre preliminarmente osservare che il legislatore del 2010 ha inteso valorizzare il ruolo di «faro della giurisprudenza amministrativa» dell’Adunanza plenaria (R. De Nictolis, Codice del processo amministrativo commentato, ISPOA, 2017, 1447), al pari – mutatis muntandis – di quanto era già accaduto con la legge 21 dicembre 1950 n. 1018, che aveva introdotto la possibilità di rimessione d’ufficio (i.e. da parte del Presidente del Consiglio di Stato), nonché in caso di contrasti virtuali e al ricorrere di questioni di particolare importanza.
In questo senso merita quindi attenzione il comma terzo dell’art. 99 c.p.a., dove per la prima volta è stato previsto che «se la sezione cui è assegnato il ricorso ritiene di non condividere un principio di diritto enunciato dall’Adunanza Plenaria, rimette a quest’ultima, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso».
Tale previsione sin dalla sua introduzione, nel 2010, è stata oggetto di vivace dibattito, essendosi la dottrina interrogata sul se dalla stessa sia possibile inferire l’introduzione nel nostro ordinamento di un vero e proprio vincolo del precedente.
A tale interrogativo un primo orientamento ha risposto affermativamente, ritenendo che l’art. 99, comma terzo, c.p.a. abbia accresciuto la rilevanza e la «forza giuridica della decisione dell’Adunanza plenaria, [al punto tale da imporre] i suoi principi alle Sezioni del Consiglio di Stato e, indirettamente e con maggiore incisività rispetto al passato, [anche] ai Tribunali Amministrativi Regionali» (E. Follieri, L’introduzione del principio dello stare decisis nell’ordinamento italiano, con particolare riferimento alle sentenze dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, in Dir. proc. amm., 2012, 4, 1237 ss. e spec. 1254). Nel solco di tale ricostruzione si è arrivati inoltre a sostenere il valore normativo del principio di diritto fissato dall’Adunanza Plenaria, le cui sentenze pertanto finirebbero per assumere il valore di fonte del diritto (A. De Siano, Precedente giudiziario e decisioni della P.A., ESI, Napoli, 2018, spec. 146 ss.).
Altra parte della dottrina, invece, ha ritenuto di dover qualificare il principio di diritto espresso dall’Adunanza Plenaria come «il risultato del processo di interpretazione e di qualificazione giuridica del caso» concreto (S. Spuntarelli, Tecniche di interpretazione dell’Adunanza Plenaria e valore del precedente, Ed. scientifica, Napoli, 2019, 245). Con ciò dunque escludendo la possibilità dello stesso di «assurge[re] al rango di fonte del diritto» (R. CAPONIGRO, 2017). Ed escludendo altresì la sussistenza di un vero e proprio vincolo ex art. 99, comma terzo, c.p.a. tanto per la sezione semplice del Consiglio di Stato, quanto – a maggior ragione – per i giudici di primo grado, «rispetto ai quali il principio di diritto conserva un’efficacia solo persuasiva» (S. Spuntarelli, op. ult. cit., 257).
Nel mezzo, l’ulteriore orientamento secondo cui l’art. 99, comma terzo, c.p.a. avrebbe introdotto «nell’ordinamento la regola del precedente con valore non meramente persuasivo (in virtù della sua autorevolezza) ma parzialmente vincolante (in virtù della sua autorità)». Ciò in quanto «diversamente opinando, la norma sarebbe superflua, atteso che la regola del precedente persuasivo era istituto già noto all’ordinamento prima dell’entrata in vigore del» codice del processo amministrativo (R. De Nictolis, op. ult. cit., 1452 ss. che rimanda a Cons. Stato, IV sez., n. 688/1961. Ex multis, v. Cons. Stato, IV sez., 13 marzo 2009 n. 1517).
Dal proprio canto la giurisprudenza sembra in via maggioritaria aver fatto propria la seconda delle ricostruzioni dottrinarie poc’anzi richiamate, specie laddove tende a sottolineare come la precettività della regola di cui all’art. 99, comma terzo, c.p.a. sia frustrata dalla mancata previsione di sanzioni. A titolo esemplificativo, si rammenta come in un caso concernente lo scorrimento di graduatorie concorsuali la terza sezione del Consiglio di Stato abbia ritenuto inammissibile il ricorso per revocazione ex art. 395, comma quarto, c.p.c. avverso una sentenza che – a parere dei ricorrenti – non avrebbe tenuto conto dei principi di diritto precedentemente espressi dall’Adunanza Plenaria. Secondo il collegio, infatti, non è «possibile “forzare” il disposto dell’art. 395 c.p.c., che – come ben noto – è nel segno della tassatività delle ipotesi previste e dell’eccezionalità del rimedio stesso, per dare una sanzione processuale ad un precetto per il quale tale sanzione non è stata prevista dal legislatore» (Cons. Stato, III sez., 6 agosto 2014 n. 4185, conforme Cons. Stato, IV sez., 18 marzo 2021 n. 2342).
E tanto fermo in ogni caso il valore meramente persuasivo che le sentenze dell’Adunanza Plenaria recano nei riguardi dei giudici amministrativi di prime cure. Recentemente, ad esempio, il Consiglio di Stato ha chiaramente affermato che l’art 99 c.p.a. «non spiega alcun effetto in via diretta nei confronti dei tribunali amministrativi regionali. L’esigenza di dare certezza al diritto applicato che si pone alla base dell’art. 99 cod. proc. amm. deve essere infatti bilanciata con la necessità di garantire forme naturali di evoluzione giurisprudenziale». Da ciò discende – si legge poco oltre – che «il giudice di prime cure non sarà quindi obbligato a seguire il principio, ma dovrà evitare difformità per incuriam rispetto allo stesso» (Cons. Stato, VI sez., 3 dicembre 2018 n.6858).
Ad abundantiam, si evidenzia inoltre come indicazioni nel senso della assoluta vincolatività dei principi di diritto posti dall’Adunanza Plenaria non si possano cogliere neppure nelle maglie della giurisprudenza di Lussemburgo.
La Corte di giustizia infatti già nel 2010 (Georgi Ivanov Elchinov, C-173/09) e poi di nuovo nel 2011 (Interedil Srl, C-396/09), su sollecitazione di un giudice a quo italiano, ha avuto occasione di affermare che «il diritto dell’Unione osta a che un giudice nazionale sia vincolato da una norma di procedura nazionale ai sensi della quale egli deve attenersi alle valutazioni svolte da un giudice nazionale di grado superiore, qualora risulti che le valutazioni svolte dal giudice di grado superiore non sono conformi al diritto dell’Unione, come interpretato dalla Corte» (nella specie il riferimento era ad una pronuncia della Corte di Cassazione in materia di giurisdizione).
Più di recente, inoltre, pronunciandosi nel noto caso Plurigenica SpA – in cui tra le altre cose si faceva questione proprio del (possibile) vincolo ex art. 99, comma terzo, c.p.a. – la Corte di Lussemburgo, al fine di assicurare il primato e l’effetto utile del diritto UE, ha affermato che l’art. 267 TFUE «osta a una disposizione di diritto nazionale nei limiti in cui quest’ultima sia interpretata nel senso che, relativamente ad una questione vertente sull’interpretazione o sulla validità del diritto dell’Unione, una sezione di un organo giurisdizionale di ultima istanza, qualora non condivida l’orientamento definito da una decisione dell’adunanza plenaria di tale organo, è tenuta a rinviare la questione all’adunanza plenaria e non può pertanto adire la Corte ai fini di una pronuncia in via pregiudiziale».
Rilievi critici sulla nomofilachia in funzione comunitaria
Esclusa dunque l’esistenza di un vincolo giuridico ex art. 99, comma terzo, c.p.a. al rispetto, da parte del giudice amministrativo di primo grado, dei principi di diritto fissati dall’Adunanza Plenaria e posta, per converso, l’efficacia persuasiva di tali principi nei confronti dei successivi pronunciamenti del giudice amministrativo, resta tuttavia da verificare se la discrasia tra la sentenza in commento e il decisum dell’Adunanza Plenaria del 2021 possa trovare, nel merito, una giustificazione in punto di diritto.
Al riguardo, due – si è detto – i profili di distanza: la definizione del concetto di scarsità della risorsa e l’individuazione del termine di scadenza delle concessioni balneari.
Quanto al primo aspetto, il Tar Lecce ha compiuto ampi riferimenti alla sentenza della Corte di giustizia di aprile 2023. Nel fare ciò, tuttavia, il collegio è sembrato trarre delle conclusioni che vanno ben oltre il dato letterale di tale pronuncia.
Infatti, interrogato circa il «se risulti coerente rispetto ai fini perseguiti dalla direttiva 2006/123 e dallo stesso articolo 49 [TFUE] una statuizione da parte del giudice nazionale relativa alla sussistenza, in via generale ed astratta, del requisito della limitatezza delle risorse e delle concessioni disponibili riferito tout-court all’intero territorio nazionale ovvero se, viceversa, stante in Italia la competenza dei singoli comuni, tale valutazione non debba intendersi riferita al territorio costiero di ciascun comune e, quindi, riservata alla competenza comunale», il giudice di Lussemburgo si è limitato a meglio precisare quanto già affermato in relazione al caso Promoimpresa s.r.l.. Vale a dire che, nella valutazione della scarsità delle risorse naturali, gli Stati membri possono «preferire una valutazione generale e astratta, valida per tutto il territorio nazionale, ma anche, al contrario, (…) privilegiare un approccio caso per caso (…), o addirittura (…) combinare tali due approcci» (par. 46). Quel che rileva – si legge poco oltre – essendo la necessità «che i criteri adottati da uno Stato membro per valutare la scarsità delle risorse naturali utilizzabili si basino su criteri obiettivi, non discriminatori, trasparenti e proporzionati» (par. 48).
Da ciò – a ben vedere – non sembra dunque possibile inferire, come invece si legge nella sentenza in commento, né che tale attività di valutazione debba sostanziarsi in un vero e proprio procedimento (i.e. il riferimento è chiaramente ai lavori del Tavolo tecnico istituto dalla Legge di conversione del decreto Milleproroghe), né che essa spetti in via esclusiva all’amministrazione, dovendo per contro dirsi «esclusa la legittimità di una valutazione (…) ad opera del giudice nazionale».
Quanto poi al secondo aspetto, il Tar Lecce ha utilizzato un argomento ancor meno persuasivo.
Il termine del 31 dicembre 2023 per la scadenza delle concessioni balneari era (rectius, è) un termine di natura compromissoria individuato dall’Adunanza Plenaria, e successivamente fatto proprio dal legislatore (v. art. 3 della L. n. 118/2022), al fine di evitare la cessazione immediata dei rapporti concessori in essere alla data delle sentenza gemelle.
Tale termine pare essere stato sostanzialmente accettato (rectius, tollerato) dalla Commissione europea (che non ha aggravato la procedura in quel particolare momento) in ragione proprio delle argomentazioni fornite a supporto dall’Adunanza Plenaria: i) evitare gli effetti negativi dal punto di vista socio-economico che sarebbero derivati dall’immediata cessazione dei rapporti concessori; ii) dare il tempo sufficiente al legislatore per adottare un quadro normativo organico e alle amministrazioni per bandire le prime gare.
Viceversa lo spostamento di detto termine al 31 dicembre 2024 operato in sede di conversione del decreto Milleproroghe altro non è che una nuova proroga, come tale: i) in contrasto con il diritto europeo (i.e. art. 12 direttiva servizi e art. 49 TFUE); ii) suscettibile di essere disapplicata tanto dal giudice amministrativo (si v. infatti Cons. Stato, VI sez., 1 marzo 2023 n. 2192) quanto, e ancor prima, dalla stessa amministrazione (amplius, si v. C. Feliziani, Il provvedimento amministrativo nazionale in contrasto con il diritto europeo. Profili di natura sostanziale e processuale, Ed. scientifica, Napoli, 2023, 314 ss.); iii) non ammissibile per la Commissione europea e, difatti, aspramente censurato nel parere motivato del 16 novembre 2023.
Posta dunque l’impossibilità, per le ragioni appena illustrate, di condividere nel merito la soluzione cui è pervenuto il Tar Lecce, sia consentito aggiungere che la sentenza in commento, non solo non sembra offrire argomenti giuridicamente utili a superare il decisum dell’Adunanza Plenaria, ma appare anche pregiudizievole in termini di politica del diritto. La stessa, infatti, è suscettibile di alimentare ulteriormente lo stato di incertezza che da tempo grava sulla materia delle concessioni balneari, rischiando così di andare a detrimento proprio di quegli operatori del settore che – sembra lecito ipotizzare – (forse) il collegio intendeva tutelare.
Da ultimo, e più in generale, si osserva come la vicenda in esame offra evidenza del fatto che il dialogo tra le Corti supreme, in questo caso addirittura tre sono quelle coinvolte, si mostra sempre di più il mezzo per garantire la corretta interpretazione e applicazione del diritto UE nei sistemi domestici (C. AMALFITANO, 2019). In quest’ottica, dunque, gli strumenti processuali funzionali all’esercizio nomofilattico appaiono preziosi: l’art. 99 c.p.a., così come del resto l’art. 363 bis c.p.c, consentono infatti la formazione di un vincolo – seppur, si è visto, in senso a-tecnico – che dovrebbe facilitare il puntuale rispetto del diritto UE. Va da sé, inoltre, che in tale contesto l’esercizio della funzione di stabilire i principi di diritto a cui sono chiamati i giudici nazionali di ultima istanza potrebbe essere utilmente esercitato anche previo esperimento del rinvio ex art. 267, par. 3, TFUE (in tema M. Condinanzi, I giudici italiani “avverso le cui decisioni non possa porsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno” e il rinvio pregiudiziale, in Il dir. un. eur., 2010, 2, 295 ss. e più di recente M. LIPARI, 2021). È questo, infatti, uno di quei casi in cui il rinvio pregiudiziale di interpretazione potrebbe utilmente assolvere alle funzioni di armonizzazione e di integrazione che gli sono istituzionalmente proprie (G. Tesauro, Il diritto dell’Unione europea, VI ed., Cedam, Padova, 2010, 309 ss.).