C. BURELLI, La discrezionalità della Commissione europea nelle procedure di infrazione
Giappichelli, Torino, 2024, pp. I-432
“Avvincente”: non vi è altro aggettivo per descrivere il contenuto del volume di oltre 400 pagine pubblicato da Camilla Burelli ed avente ad oggetto “La discrezionalità della Commissione europea nelle procedure di infrazione”. “Avvincente” in quanto lo studio della dr.ssa Burelli getta “un fascio di luce” su uno degli aspetti più oscuri del funzionamento della Commissione europea, vale a dire la gestione dei procedimenti di infrazione ex artt. 258 e 260 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE).
L’analisi dell’Autrice si basa su un rilevantissimo numero di documenti della Commissione e del Parlamento europeo, su un altrettanto rilevante numero di sentenze della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado e su un’accuratissima ricostruzione della dottrina che fino ad oggi si è occupata di questo cruciale problema nel contesto dell’ordinamento giuridico dell’Unione: la discrezionalità apparentemente senza alcun limite di cui gode la Commissione nell’adozione di tutte le decisioni che riguardano l’avvio, la gestione e la chiusura dei procedimenti di infrazione contro gli Stati membri per violazione di norme di diritto dell’Unione.
Lo studio è impostato su una duplice “griglia di lettura” delle funzione di controllo affidata dai trattati alla Commissione europea: da un lato, i vari tipi di procedimenti di infrazione, inclusi gli strumenti di “enforcement” alternativi alla procedura “classica” prevista dall’art. 258 TFUE; dall’altro gli attori delle procedure di infrazione ed i rispettivi ruoli e responsabilità. Ne risulta un quadro descrittivo assai completo e approfondito che consente all’Autrice (e al lettore) di porsi con piena cognizione di causa una serie di problemi giuridico-istituzionali la cui soluzione appare tutt’altro che semplice.
L’Autrice rileva giustamente che uno degli strumenti alternativi di controllo sulle legislazioni degli Stati membri su cui la Commissione ha molto contato negli ultimi due decenni è certamente l’intervento sistematico della Commissione stessa nei procedimenti pregiudiziali, che effettivamente si può in parte definire «uno strumento complementare alla procedura di infrazione» (p. 70). Resta il fatto che il procedimento pregiudiziale e il procedimento di infrazione si presentano del tutto indipendenti, sia in quanto la Commissione non ha nessuna influenza sullo svolgimento del processo pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia, sia in quanto è soltanto a conclusione del processo di infrazione ex art. 258 che la Corte constata direttamente la contrarietà di una disposizione di diritto nazionale con il diritto dell’Unione, mentre a seguito di una sentenza pregiudiziale spetterà al solo giudice di rinvio effettuare questa medesima constatazione (p. 85).
Particolarmente interessanti si presentano poi le ben 125 pagine che l’Autrice dedica all’analisi ex professo della smisurata discrezionalità di cui la Commissione gode nella gestione della procedura di infrazione ex art. 258 TFUE, che in pratica si presenta come di gran lunga la più importante. Partendo dalle quattro patologie che tale assoluta discrezionalità determina in relazione al procedimento di infrazione (p. 118: mancanza di trasparenza, eccessiva lentezza, esclusione dei soggetti privati e disparità di trattamento fra Stati membri) lo studio procede ad un’analisi “diacronica” della politica delle infrazioni attuata dalle successive Commissioni dagli anni Ottanta (l’“epoca d’oro” dei procedimenti di infrazione con 293 sentenze ex art. 169 CEE emanate nel decennio 1980-1990 dalla Corte di giustizia) fino alla prima Commissione Von der Leyen (2019-2024). Si legge a questo riguardo che se fino alla Commissione Prodi (2001-2006) venivano aperti ben 1400 procedimenti di infrazione ogni anno, con la comunicazione del 2007 (p. 136) la Commissione Barroso operava un radicale cambio di strategia puntando tutto sulla composizione preventiva “amichevole” dei conflitti con gli Stati membri mediante l’introduzione della rete Solvit ed un ricorso sistematico allo scambio di lettere EU Pilot che secondo la Commissione stessa avrebbe consentito di risolvere “amichevolmente” i due terzi delle potenziali infrazioni (p. 138). Naturalmente la Commissione si è ben guardata dal precisare se i soggetti privati autori delle denunce si erano dichiarati soddisfatti di tali “archiviazioni preventive” dei potenziali procedimenti di infrazione e se le giustificazioni addotte dai governi degli Stati membri “inquisiti” erano state sottoposte ad un attento esame giuridico e fattuale, dato che è assai improbabile che un’amministrazione riconosca candidamente di aver commesso una violazione del diritto europeo (p. 169: se la Commissione si ritiene soddisfatta delle risposte dello Stato membro, archivia il caso). La successiva Commissione Juncker (2014-2019) con la sua comunicazione del 2016 (p. 139) rilanciava la politica delle infrazioni ma puntando su priorità più “politiche” aventi ad oggetto le violazioni considerate più gravi del diritto dell’Unione e dello stato di diritto tout court (chiara allusione a certi Stati membri a conduzione “sovranista”). Questo “volontario rallentamento” dell’azione di vigilanza della Commissione Juncker, peraltro in linea con la politica della precedente Commissione, determinava un forte aumento dei rinvii pregiudiziali dei giudici nazionali alla Corte di giustizia e delle conseguenti sentenze pregiudiziali (p. 138), aumento che continua fino ad oggi e che – sia detto per inciso – ha indotto la Corte a chiedere al Consiglio e al Parlamento europeo di adottare un regolamento UE modificativo dello Statuto della Corte stessa al fine di trasferire al Tribunale i procedimenti pregiudiziali in sei branche di legislazione dell’Unione, trasferimento operato nell’ottobre del 2024. Anche la prima Commissione Von der Leyen sembra aver accolto, nella sua comunicazione del 2022, lo stesso approccio “minimalista” in fatto di procedimenti d’infrazione attato dalla Commissioni precedenti, puntando di nuovo sullo strumento EU Pilot di composizione preventiva dei conflitti.
Al termine di questa rassegna delle deludenti comunicazioni ufficiali delle varie Commissioni aventi ad oggetto la politica delle infrazioni, si presenta particolarmente interessante il paragrafo (p. 146) che l’autrice dedica agli attori “invisibili” della procedura di infrazione, vale a dire il funzionario al quale è stato assegnato il dossier di infrazione (“case handler”), il capo dell’unità competente per materia – al quale meritano di essere aggiunti il direttore ed il direttore generale ai quali deve rispondere il suddetto capo unità e che decidono in assoluta autonomia sull’avvio o meno dell’avvio delle procedura EU Pilot – il Servizio giuridico con il quale ogni Direzione generale della Commissione deve obbligatoriamente collaborare, il Segretariato generale, il gabinetto del Commissario competente ed il Collegio dei Commissari: sono questi e non altri i volti “invisibili” dello sconfinato potere discrezionale della Commissione nella gestione delle procedure di infrazione.
Altrettanto interessante si presenta quella parte dello studio di Camilla Burelli dedicato ai diritti dei denuncianti aventi ad oggetto una maggiore partecipazione degli stessi alle varie fasi della procedura di infrazione. Molto opportuno a questo riguardo risulta la citazione della sentenza Molkerei-Zentrale nella causa 28/67 nella quale la Corte ha nettamente distinto l’interesse del soggetto privato alla tutela del suo diritto individuale e l’interesse pubblico perseguito dalla Commissione e consistente nell’assicurare il rispetto da parte degli Stati membri degli obblighi ad essi derivanti dalla legislazione dell’Unione. Tale distinzione operata direttamente dalla Corte esclude in radice l’opportunità di conferire al denunciate un diritto di intervento nel processo di infrazione dinanzi ai giudici dell’Unione (p. 213). Al contrario una maggiore e soprattutto una migliore partecipazione degli autori delle denunce nella fase pre-contenziosa del procedimento di infrazione assicurerebbe a questi ultimi un minimo di tutela dei loro diritti riducendo specularmente l’immenso margine di apprezzamento discrezionale degli “attori invisibili” del procedimento stesso (dal “case handler” al Commissario competente per materia), tutela tanto più equa e necessaria se si tiene conto del fatto che in moltissimi casi la denuncia presentata alla Commissione rappresenta l’ extrema ratio alla quale si vedono costretti a ricorrere il cittadino o l’imprenditore europei di fronte all’insensibilità dei giudici o delle amministrazioni nazionali dinanzi a patenti violazioni del diritto dell’Unione commesse dal legislatore di quello stesso Stato membro. La prospettiva di un “atto a portata vincolante” – vale a dire di un regolamento UE – auspicato dall’Autrice (p. 220) per “rafforzare i (pochi) diritti dei denuncianti” appare certamente suggestiva ma poco realistica visto, fra l’altro, che dovrebbe essere la Commissione stessa a formulare una tale proposta legislativa. D’altra parte non si può negare che il denunciante subisca una chiara lesione del proprio interesse legittimo all’avvio e al perseguimento del procedimento di infrazione quando la Commissione, sulla base di motivazioni giuridiche in ipotesi errate (per esempio in quanto basate di informazioni fuorvianti fornite dalle stesse amministrazioni nazionali “inquisite”) o sulla base di motivazioni di pura opportunità lato sensu politica archivia la denuncia o, una volta instaurato un processo ex art. 258-260 TFUE, rinuncia agli atti determinando l’estinzione del processo di infrazione. Non si può pertanto che condividere la tesi dell’Autrice (p. 357), secondo cui appare necessario introdurre «un sindacato giurisdizionale dell’attività o dell’inattività della Commissione» (p. 357 e p. 368) che nell’attuale contesto normativo europeo soltanto «un revirement dell’orientamento giurisprudenziale della Corte» potrebbe realizzare (p. 358). Finora pare che nessun autore di denuncia archiviata senza motivazione adeguata abbia tentato di chiedere ai giudici dell’Unione di ritornare sul principio della discrezionalità assoluta della Commissione enunciato nella (tristemente) nota sentenza Star Fruit C-247/87. Eppure un tentativo di ricorso in tal senso sarebbe oltremodo opportuno, anche se per indurre la Corte ad un ridimensionamento della propria giurisprudenza Star Fruit un simile ricorso dovrebbe partire da un caso di violazione patente di una disposizione di diritto dell’Unione commessa da un Parlamento nazionale possibilmente con piena cognizione di causa1.
Sono pertanto condivisibili molte delle conclusioni dell’autrice in ordine alle lacune dell’attuale procedura di infrazione, in primis la carenza di efficacia deterrente della procedura stessa a causa anche della imprevedibile, ma frequente, «dilatazione dei tempi» della fase pre-contenziosa (pp. 349 e 361) spesso a causa di tattiche dilatorie attuate dalle amministrazioni nazionali al solo fine di “guadagnare tempo”. È evidente che, come propone l’Autrice, l’imposizione o l’auto-imposizione di precise scadenze ai servizi della Commissione incaricati del trattamento delle denunce e della gestione dei procedimenti già avviati aumenterebbe la trasparenza e l’efficienza dell’intera procedura. Così come sarebbe auspicabile l’introduzione di un obbligo in capo alla Commissione di avviare il procedimento di infrazione per determinate categorie di violazioni come la Commissione stessa ha disposto, con la sua comunicazione del gennaio 2011 (p. 329), per l’apertura sistematica dei procedimenti di infrazione per violazione dell’art. 260, par. 3, TFUE (mancata comunicazione delle misure di trasposizione di una direttiva UE in diritto nazionale) e come la Direzione generale dei Bilanci della Commissione stessa attua da sempre, ma soltanto in via di fatto, in materia di recupero di “risorse proprie” del bilancio dell’Unione deducendo l’obbligo di perseguire sistematicamente gli Stati membri inadempienti dall’art. 317 TFUE (monopolio dell’esecuzione del bilancio dell’Unione).
Queste sono soltanto alcune delle numerosissime riflessioni sviluppate dall’Autrice nel suo dettagliato e avvincente studio che a sua volta suscita nel lettore altre conseguenti riflessioni. Ci permettiamo di proporne una, basata sulla lunga esperienza personale dello scrivente nell’ambito del Servizio giuridico della Commissione. Fino alla fine degli anni Ottanta i procedimenti di infrazione erano procedimenti da “addetti ai lavori”, vale a dire aventi un oggetto molto puntuale e settoriale (oggi si direbbe “tecnico”) e di conseguenza erano gestiti quasi sempre a livello di funzionari, sia da parte della Commissione, che da parte dello Stato membro interessato. Dall’inizio degli anni Novanta i procedimenti e ancor di più i processi di infrazione hanno cominciato ad interessare giornali e televisioni in quanto il dilatarsi della legislazione dell’Unione a tanti settori di intervento non più settoriali o “tecnici” ha fatto sì che detti procedimenti presentassero anche un notevole impatto politico in senso lato. Tale interesse dei mass-media per i procedimenti di infrazione si è rivelato massimo, per non dire “spasmodico”, nei casi in cui la Commissione aveva contestato norme di leggi nazionali tributarie o di sicurezza sociale, la cui disapplicazione automatica a seguito di una sentenza “di condanna” della Corte di giustizia avrebbe comportato perdite di gettito o spese aggiuntive dell’ordine di miliardi di euro per il bilancio dello Stato interessato. Questo forte impatto mediatico – finanziario dei procedimenti di infrazione ha fatto sì che dagli anni Novanta in poi la gestione delle potenziali infrazioni si sia fortemente politicizzata sia da parte degli Stati membri, sia – e sfortunatamente – da parte della Commissione, con negoziati condotti da funzionari delle due parti non più sulla base di considerazioni giuridiche, ma sulla base di considerazioni fortemente politiche con forti pressioni sui servizi della Commissione per rallentare o addirittura proporre al Collegio l’archiviazione dei procedimenti di infrazione più “sensibili”2. Ovviamente di queste pressioni dei governi degli Stati membri sui servizi della Commissione o sugli stessi Commissari non vi è alcuna traccia sui documenti ufficiali dell’Istituzione. Ma è bene che gli studiosi del diritto dell’Unione ne siano al corrente (almeno loro…).
Si può a questo punto convenire con la conclusione dell’Autrice secondo la quale «Il controllo che svolge la Commissione è sì un controllo di tipo giuridico, ma strumento per compiere quel controllo è di tipo politico»? (p. 235) Ci permettiamo al riguardo una piccola precisazione: il controllo effettuato dalla Commissione mediante la procedura di infrazione è certamente un controllo di tipo giuridico, ma dato che l’oggetto di quel controllo sono norme di leggi approvate dai parlamenti degli Stati membri, o norme di regolamenti adottati dai governi di quegli stessi, o prassi delle amministrazioni nazionali, o in certi casi particolarmente gravi giurisprudenze anti-europee delle giurisdizioni supreme, l’oggetto di quel controllo è un atto intrinsecamente politico e quindi lo strumento di controllo – il procedimento di infrazione – ha un inevitabile impatto politico paragonabile soltanto ai giudizi di legittimità costituzionale che si svolgono dinanzi alla corti costituzionali degli Stati membri.
Non resta pertanto che raccomandare a tutti gli interessati alle prospettive di sviluppo del processo di integrazione europea la lettura dell’eccellente ed esaustivo studio della dr.ssa Burelli, cercando di apprezzare positivamente, grazie alle sue approfondite ricerche ed analisi, quanto è stato realizzato dalla Commissione e dalla Corte di giustizia in quasi sette decenni di attività di controllo sull’applicazione del diritto dell’Unione da parte degli Stati membri mediante una procedura di infrazione che non ha uguali – è bene non perderlo mai di vista – in nessuna organizzazione sovranazionale di Stati.
1 Un esempio al riguardo sarebbe potuto essere la condizione di residenza in Italia di almeno dieci anni ai fini della concessione del “reddito di cittadinanza” prevista dall’art. 2, lett. a) e b), del d.l. n. 4/2019, censurata dalla Corte di giustizia nella sentenza pregiudiziale C-112/22 del 29 luglio 2024 in quanto in evidente violazione dell’art. 11, par. 1, lett. d), della direttiva 2003/109/CE sullo status dei cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo nel territorio dell’Unione. Il Ministro degli Interni dell’epoca aveva dichiarato pubblicamente di avere personalmente introdotto quel requisito della residenza di dieci anni in Italia per discriminare la maggior parte degli immigrati provenienti da paesi terzi. La denuncia presentata dalle associazioni di difesa dei diritti degli immigrati aveva “dormito” per tre anni nei cassetti della Commissione fino alla provvidenziale questione pregiudiziale rinviata alla Corte di giustizia dal Tribunale di Napoli.
2 Ci permettiamo di citare al riguardo l’esempio della norma di legge italiana che dal 1984 introdusse una “tassa di concessione” sull’iscrizione delle società di capitali nel registro delle imprese, il cui importo dopo successivi aumenti fra il 1984 e il 1989 aveva raggiunto i 15 milioni di lire all’anno per le società per azioni (pari a 7.500 euro) e 3.5 milioni di lire per le società a responsabilità limitata (1.750 euro). Il 22 febbraio 1991 Tribunale di Genova aveva rinviato alla Corte di giustizia la questione pregiudiziale C-71/91 per l’interpretazione dell’art. 10 della direttiva 69/335/CEE sulle imposte sui conferimenti di capitali nella società al fine di verificare la liceità di detta “tassa di concessione”. Il 5 luglio 1991 la Commissione depositava in Corte un ricorso contro l’Italia avente ad oggetto la norma di legge italiana che aveva introdotto la suddetta “tassa di concessione” e ne aveva previsto la riscossione annuale. Il 30 settembre 1992 l’Avvocato generale (“AG”) depositava le sue conclusioni totalmente favorevoli alla tesi della Commissione circa l’incompatibilità di tale “tassa di concessione” con il divieto di cui all’art. 10 della direttiva 69/335/CEE. A seguito della pubblicazione delle conclusioni dell’AG sul Sole 24 Ore, 40.000 società di capitali di tutt’Italia presentavano istanza di rimborso di cinque annualità (termine di prescrizione) di detta tassa per un valore complessivo stimato all’epoca fra (in euro) i 5 e i 10 miliardi di euro. A questo punto il Governo italiano faceva enormi pressioni sulla Commissione per ritirare il ricorso ex art. 169 CEE, ritiro che otteneva dalla Commissione con conseguente ordinanza di radiazione della causa dal ruolo decisa dalla Corte in data 18 marzo 1993. Per fortuna la causa pregiudiziale seguì il suo corso ed il 20 aprile 1993 la Corte pronunciò la sentenza C-71/91, Ponente Carni, dalla quale derivava l’incompatibilità assoluta della “tassa di concessione” con l’art. 10 della direttiva 69/335/CEE. Tuttavia, l’effetto della sentenza pregiudiziale fu molto meno “dirompente” per il Ministero italiano delle Finanze di una sentenza “di condanna” ex art. 169 CEE dato che come tutte le sentenze pregiudiziali la sentenza C-71/91 non constatava direttamente l’incompatibilità della norma tributaria istitutiva della “tassa di concessione” con l’art. 10 della direttiva e di questo carattere indiretto del dispositivo della sentenza pregiudiziale il Ministero approfittò in pieno limitando drasticamente i rimborsi della tassa illegittima e costringendo migliaia di società ad adire le commissioni tributarie per chiedere l’applicazione “caso per caso” della sentenza Ponente Carni. Una vicenda non onorevole per la Commissione europea.