La Protection du Pouvoir Judiciaire comme Défense du Droit de l’Union en Vertu de l’Article 19, para. 1, TUE
Cour de Justice, 5 juin 2023, affaire C-204/21, Commission c. Pologne.
La protezione della magistratura come difesa del diritto dell’Unione ai sensi dell’art. 19, par. 1, TUE
The Protection of the Judiciary as a Defence of EU law under Article 19(1) TEU
1. Premessa
La sentenza della causa C-204/21 Commissione c. Polonia, deliberata della Grande Sezione nel giugno 2023, fornisce un altro tassello nella giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di “Rule of Law”. Ancora una volta, dal 2016 ad oggi, la Polonia si trova al centro del contenzioso, a causa dell’erosione sistematica dello stato di diritto di «proporzioni industriali» da parte del governo PiS (Prawo i Sprawiedliwość, traducibile – ironicamente – come “Diritto e Giustizia”).
L’oggetto della sentenza pronunciata in sede di ricorso per infrazione è la cosiddetta “legge bavaglio”. Siffatta legge, introdotta nel 2020 dalla Polonia, impedisce agli organi giurisdizionali nazionali di verificare il rispetto dei requisiti di indipendenza, imparzialità e precostituzione secondo la legge – quali richiesti sia dal diritto dell’Unione che dalla Convenzione EDU– di altri organi o giudici nazionali, disponendo finanche la possibilità di avviare procedimenti disciplinari per coloro che compiono tale valutazione o sollevano una questione pregiudiziale relativa alla compatibilità della normativa interna con il diritto dell’Unione (specificatamente con gli artt. 2, 19, par. 1, TUE, 47 CdFUE e 267 TFUE).
La causa in esame è la quarta procedura di infrazione legata agli attacchi del governo polacco nei confronti del potere giudiziario (dopo C-619/18, C-192/18 e C-791/19). Nonostante il regime disciplinare in sé fosse già stato al centro della causa C-791/19 e benché le modifiche normative apportate dal governo di Varsavia non siano state ritenute adeguate dalla Commissione, quest’ultima piuttosto che invocare l’art. 260 TFUE in relazione alla mancata esecuzione della sentenza C-791/19, e richiedere dunque sanzioni giornaliere senza dover intraprendere una nuova fase precontenziosa, ha iniziato un nuovo ricorso per infrazione, sebbene giustificato dall’aggiunta di alcune nuove contestazioni legate ad esempio al diritto alla privacy dei giudici, la cui sentenza è oggetto di questo commento.
Forse proprio per mitigare il tempo richiesto dal decorso “ordinario” della procedura ex art. 258 TFUE, in attesa della pronuncia finale, la Commissione ha richiesto provvedimenti provvisori volti a sospendere l’operato della Sezione disciplinare, già ritenuta incompatibile con il diritto dell’Unione europea nella sentenza A.K., e il divieto nei confronti dei giudici ordinari di applicare il diritto UE. Malgrado l’ordinanza, emessa dalla Corte nel luglio 2021 a seguito delle dette richieste della Commissione, il governo polacco ha continuato a venir meno ai propri obblighi e per questo lo Stato membro è stato condannato a pagare una somma giornaliera di 1 milione di euro. Successivamente, l’importo della penalità è stato ridotto a 500 mila euro a fronte di una parziale esecuzione dei provvedimenti provvisori, decisione che però non appare convincente considerato che le modifiche apportate sono state prevalentemente cosmetiche e che la stessa vice-presidenza della Corte ha “premiato” un semplice «mutamento di circostanze» (vedi art. 163 del regolamento di procedura della Corte di giustizia) a livello formale, piuttosto che sostanziale. Per esempio, la Corte ha riconosciuto come un parziale soddisfacimento dell’ordinanza la sostituzione della Sezione disciplinare con nuovi organi giurisdizionali, quali la Sezione di responsabilità professionale e la Sezione di controllo straordinario, la cui regolarità in fatto di composizione, tuttavia, la Corte non si è ritenuta nella posizione di valutare, salvo violare i diritti processuali dello Stato membro (par. 104). Ma se la Corte non può verificare se le nuove misure effettivamente costituiscano un adempimento al diritto UE, nella fattispecie l’art. 19, par. 1 che si trova al centro del contenzioso, come può affermare che esse siano «tali da garantire, in misura notevole, l’esecuzione dei provvedimenti provvisori» (par. 112)?
Fatta questa premessa, i paragrafi che seguono hanno l’obiettivo di riassumere sinteticamente il contenuto della decisione relativa alla quarta procedura di infrazione (v. infra par. 2) e di riflettere sull’uso della procedura di infrazione, quale strumento più idoneo per verificare gli inadempimenti “sistemici” posti in essere dagli Stati membri in relazione alla Rule of Law (v. infra par. 3).
2. Un passo in avanti nella difesa dello stato di diritto
Nella sentenza Commissione c. Polonia, la Corte ha statuito che la legge polacca si pone in violazione degli art. 19, par. 1, TUE, 267 TFUE, e 47 CdFUE, oltre che del regolamento generale sulla protezione dei dati (RGPD). La sentenza evidenzia tre aspetti fondamentali della concezione dello stato di diritto e del valore dell’indipendenza dei giudici nel contesto dell’Unione europea.
In primo luogo, e in linea con la propria giurisprudenza in materia, la Corte rigetta perentoriamente la rivendicazione della Polonia relativa alla esclusiva competenza nazionale per quanto riguarda l’organizzazione del sistema giudiziario in base al principio di attribuzione (art. 5, par. 1, TUE) e al rispetto dell’identità nazionale (art. 4, par. 2, TUE), in quanto lo Stato membro deve comunque rispettare lo stato di diritto. La sentenza, dunque, riconosce apertamente l’abuso di potere esercitato dai poteri legislativo ed esecutivo nell’istituire la Sezione disciplinare, e rimarca la necessità che tutti gli organi giurisdizionali nazionali rispettino le condizioni enunciate dagli art. 19, par. 1 TUE e 47 CdFUE.
Il secondo punto chiarisce come la “legge bavaglio” metta fondamentalmente a repentaglio le dottrine fondamentali dell’effetto diretto e del primato, e di conseguenza il corretto uso dell’art. 267 TFUE. Sul punto, giova notare che il ragionamento della Corte riafferma l’importanza del principio di tutela giurisdizionale effettiva, che affida a tutti i giudici il compito di assicurarsi che i diritti degli individui derivanti dai Trattati siano rispettati.
Infine, la Corte riconosce l’importante relazione fra il rispetto per lo stato di diritto e il diritto alla vita privata e alla protezione dei dati personali sancito dall’RGPD, letto in concomitanza con gli art. 7 e 8 CdFUE. La decisione del legislatore polacco di raccogliere e pubblicare i dati relativi alle attività extracurricolari presenti e passate dei giudici ha chiaramente «[i]l fine di nuocere alla reputazione personale» e «stigmatizzare» i giudici al punto tale da ostacolare lo sviluppo della loro carriera professionale, e dunque non risulta una soluzione proporzionata, nonostante la Corte non abbia identificato la presenza di altri mezzi meno lesivi dei diritti fondamentali interessati presenti nel sistema giuridico polacco. Inoltre, questo costituisce l’elemento più innovativo della sentenza, in quanto fornisce un’ulteriore concretizzazione dell’art. 2 TUE relazionando l’obbligo di preservare l’indipendenza dei giudici.
3. Il contesto processuale, fra luci ed ombre
Sotto il profilo processuale, la sentenza in esame presenta numerosi spunti di riflessione. In primo luogo, è interessante notare come l’art. 267 TFUE sia al centro di un contenzioso iniziato sulla base dell’art. 258 TFUE, e dunque come tale ultimo strumento di tutela giurisdizionale, quale la procedura d’infrazione da parte della Commissione, sia utilizzato per difendere l’effettività del “dialogo tra giudici”. Questo conferma l’impegno già dichiarato dalla Commissione nella comunicazione sull’applicazione del diritto dell’Unione nel 2017 riguardo alla fondamentale importanza del corretto funzionamento delle procedure pregiudiziali al fine del rispetto dello stato di diritto e del principio del primato, in quanto ciò permette ai sistemi giudiziari nazionali di svolgere un ruolo, attivo e cruciale, all’interno dell’ordinamento dell’Unione. A questo si aggiunge, poi, l’uso di provvedimenti provvisori ai sensi dell’art. 279 TFUE, che mostra un grande potenziale in materia di stato di diritto. Infatti, da una parte esso funge da incentivo per attuare riforme in attesa della sentenza definitiva della Corte di giustizia (anche se al contrario di quanto visto in questo caso, minimi sforzi non dovrebbero essere ricompensati prematuramente con riduzioni della penalità), e dall’altra come deterrente e “sanzione” nei confronti degli Stati membri che erodono i valori fondamentali dell’Unione.
Pertanto, l’efficacia della procedura di infrazione porta anche a una seconda considerazione legata alla scelta degli strumenti di tutela contro violazioni dello stato di diritto. Osservando nel complesso la giurisprudenza della Corte, soprattutto nei confronti della Polonia, si nota immediatamente come i rinvii pregiudiziali superino nettamente il numero di censure iniziate dalla Commissione. Sul punto, occorre notare due ordini di problemi. In primo luogo, come dimostrato dalla sentenza in commento (rectius dalla normativa polacca oggetto dell’infrazione), i giudici polacchi possono essere esposti a provvedimenti penali e quindi possono essere dissuasi dalla loro facoltà (o obbligo) di interrogare la Corte, limitando per tale via la possibilità di quest’ultima di sindacare, seppur indirettamente, la normativa interna rispetto al diritto dell’Unione europea. In secondo luogo, non andrebbe dimenticato che vi sono condizioni di ammissibilità che la Corte, in diversi casi provenienti dai giudici polacchi, ha ritenuto non sussistere (cause C-558/18 and C563/18 Miasto Łowicz and Prokurator Generalny, C-508/19 Prokurator Generalny, e dall’Ungheria C-564/19 IS). Per quanto queste decisioni non siano del tutto convincenti, sicuramente evidenziano la disparità fra rinvii e infrazioni, dove quest’ultime sono lo strumento più adatto per permette alla Corte di sanzionare potenziali violazioni del diritto in modo olistico, oltre che più velocemente grazie all’uso di provvedimenti provvisori.
Un altro aspetto critico riguarda il fatto che non tutte le censure presentate dalla Commissione relative all’art. 267 TFUE sono state accolte dalla Corte. In particolare, per quanto attiene alla prima censura – che imputa alla legge polacca di violare il diritto dell’Unione nella misura in cui istituisce un divieto per i giudici ordinari di valutare l’indipendenza di altri organi giurisdizionali – la mancata argomentazione chiara e precisa da parte della Commissione ha reso la censura da quest’ultima mossa irricevibile.
Inoltre, la Commissione ha errato nell’aver sollevato domande sulla composizione irregolare di un altro organo giurisdizionale, la Sezione di controllo straordinario che affianca la Sezione disciplinare nelle sue mansioni, solo a procedimento precontenzioso avviato. Questo “passo falso” non ha permesso alla Corte di esprimersi sulla compatibilità di questo nuovo organo introdotto dal governo polacco, già ritenuto non conforme al principio del tribunale istituito per legge dalla CEDU.
Al contrario, la Corte ha rimarcato l’importanza di non ampliare la materia del contendere in momenti successivi all’emissione del parere motivato, il quale a sua volta si deve basare sulle contestazioni mosse nella lettera di messa in mora, in modo non solo da tutelare i diritti dello Stato membro, ma anche per garantire che il contenzioso verta su una controversia chiaramente definita. Mentre da un lato il ragionamento della Corte appare ineccepibile, soprattutto nel rispetto del principio dello stato di diritto stesso, che prevede che le procedure giudiziarie siano eque e quindi diano la possibilità alle parti chiamate in causa di difendersi adeguatamente, dall’altro lato è deludente il risultato della “strategia” della Commissione, che non avendo incluso di elementi relativi alla Sezione di controllo straordinario né in fase precontenziosa né nell’atto del ricorso, ha perso un’opportunità e concesso alla Polonia una, seppure marginale, immeritata vittoria.
Pertanto, la decisione da parte della Corte di escludere argomenti presentati in ritardo e con poca chiarezza è decisamente condivisibile, considerando anche quanto permissiva la Corte sia stata in materia di ricevibilità, specialmente nella saga del contenzioso sull’indipendenza delle corti polacche, e deve inoltre fungere da monito per la Commissione. Come a lungo argomentato da Scheppele, l’efficacia dell’art. 258 TFUE potrebbe essere ampliata di gran lunga se la Commissione presentasse ricorsi per inadempimenti “sistemici”, già in uso in ambito di diritto ambientale, che dimostrino il modus operandi dei governi che erodono deliberatamente lo stato di diritto. Una maggiore attenzione strategica di questo tipo sarebbe il modo più consono e concreto di permettere alla Corte di deliberare sulla situazione complessiva di uno Stato membro, e dal punto di vista processuale offrirebbe un’importante chiave di volta, in primis riducendo le tempistiche rispetto all’uso di diverse procedure di infrazione ordinarie che si susseguono e sovrappongono, ma non danno alla Corte la possibilità di avere una visione complessiva della situazione; e in secondo luogo, esigendo un’esecuzione altrettanto “sistemica” della sentenza, che in caso di mancata esecuzione potrebbe addirittura portare all’uso dell’art. 260 TFUE per bloccare direttamente l’erogazione di fondi UE destinati allo Stato membro in difetto. Quest’ultima proposta porrebbe anche fine al vulnus processuale per cui uno Stato può fondamentalmente “comprare” la propria non conformità alla giurisprudenza della Corte attraverso il pagamento di penalità abbordabili, in quanto calcolate in proporzione all’infrazione commessa, ad oltranza (v. Scheppele et al p. 114).
Allo stesso modo, è paradossale il fatto che la Polonia, in seguito alla richiesta di provvedimenti provvisori ai sensi dell’art. 279 TFUE, fosse stata tenuta a pagare una penalità giornaliera, mentre dopo la pronuncia finale della Corte, che ha confermato la presenza di gravi inadempimenti, lo Stato è stato automaticamente sollevato dall’onere. Certo, ai sensi dell’art. 260 TFUE, sta alla Commissione il compito di monitorare l’esecuzione della sentenza e se necessario adire la Corte e imporre nuove penalità, ed al contempo, è anche giusto concedere allo Stato membro il tempo materiale per mettere in esecuzione la sentenza. Questo però, a prescindere, evidenzia una mancanza a livello di strumenti processuali, che ricompensa lo Stato anche quantunque esso sia trovato in difetto sia nel contesto della procedura ex art. 258 TFUE, sia poi in quella ex art. 279 TFUE.
Inoltre, nel caso di specie, il fatto che la Commissione non abbia prontamente provveduto a ricorrere all’art. 260 TFUE, sebbene le autorità polacche avessero espresso da subito l’intenzione di non rispettare la sentenza della Corte, espone il tallone d’Achille di questo sistema: il fatto che si basi principalmente sulla leale cooperazione e sul rispetto del primato del diritto dell’Unione da parte degli Stati membri, secondo cui essi sono tenuti a rispettare ed eseguire le sentenze della Corte, in linea con le responsabilità intraprese nel momento dell’ingresso nell’Unione ai sensi dell’art. 49 TUE. Il fatto che questi stessi principi siano i primi che vengono a mancare quando un governo intraprende la strada dell’autocratizzazione, come avvenuto in Polonia negli ultimi anni, evidenzia la difficoltà nel combattere violazioni dei valori legati all’art. 2 TUE come se fossero ordinarie trasgressioni dal diritto dell’UE e non un problema sistemico che richiede dunque maggiore attenzione e lungimiranza anche a livello procedurale.
In conclusione, la sentenza in esame mette in luce aspetti interessanti nella relazione fra vari strumenti processuali, quali il rinvio pregiudiziale, la procedura di infrazione e la richiesta di provvedimenti provvisori. Sebbene la procedura di infrazione abbia le caratteristiche per costituire lo strumento più efficace per affrontare inadempimenti sistemici in materia di stato di diritto, servirebbe un maggiore impegno, ovverosia la messa a punto di modalità strategiche efficaci e il pieno utilizzo dei vari strumenti disponibili, da parte della Commissione per realizzare a pieno siffatto potenziale.