Dans le sillage de Commssion c. France : la violation du droit européen par un tribunal de dernière instance

Cour de Justice, 14 Mars 2024, C-516/2022, Commission c. Royaume-Uni

Nel segno di Commissione c. Francia: la violazione del diritto dell’Unione europea da parte di un organo giurisdizionale di ultima istanza

Following Commission v. France: the Infringement of European Union Law by a Court of Last Instance

Con sentenza del 14 marzo 2024 (“Sentenza”), la Corte di giustizia (“Corte”) si è pronunciata sul ricorso per inadempimento promosso dalla Commissione europea nei confronti del Regno Unito (INFR(2020)2352) in ragione della sentenza con cui, il 19 febbraio 2020, la Supreme Court of the United Kingdom ha disposto l’esecuzione del lodo arbitrale Micula/Romania dell’11 dicembre 2013 (causa C-516/22, Commissione c. Regno Unito, Edizione provvisoria).

La presente segnalazione mira a fornire una breve disamina della Sentenza. È tuttavia indispensabile un conciso inquadramento fattuale della stessa, che si inserisce nel c.d. “caso Micula”, la nota vicenda giudiziaria che ormai da dieci anni vede contrapposti la Commissione europea e i signori Ioan e Viroel Micula (e le società da essi controllate).

Tutto ha avuto inizio nel lodo arbitrale dell’11 dicembre 2013, che condannava la Romania a risarcire i danni patiti dai signori Micula a causa dell’abrogazione anzi tempo (nel febbraio 2005) di un regime regionale di aiuto agli investimenti istituito nel 1998 (“Lodo”). Secondo il tribunale arbitrale, così facendo la Romania ha violato il legittimo affidamento degli investitori e i principi sanciti all’art. 2(3) del trattato bilaterale di investimento con il Regno di Svezia del 2002 (“TBI”), in virtù del quale avrebbe invece dovuto «garan[tire] in qualsiasi momento un trattamento giusto ed equo agli investimenti degli investitori» senza «ostacola[re], mediante misure arbitrarie o discriminatorie, l’amministrazione, la gestione, il mantenimento, l’utilizzazione, il godimento o la cessione di detti investimenti da parte di tali investitori». Il TBI stabiliva altresì (art. 7) che ogni controversia tra investitori e Stati firmatari avrebbe dovuto essere risolta in arbitrato ai sensi della Convezione per il regolamento delle controversie relative agli investimenti tra Stati e cittadini di altri Stati del 1965 (la Convenzione ICSID), da cui il Lodo.

Tuttavia, l’abrogazione della misura di aiuto prima della sua naturale scadenza (il 31 marzo 2009) è stata una scelta obbligata per la Romania. Il suo imminente ingresso nell’Unione europea (il 1° gennaio 2007) rendeva infatti indispensabile procedere in tal senso, dal momento che il regime di agevolazioni, per come configurato, sarebbe stato in evidente violazione della disciplina UE in materia di aiuti di stato.

La Commissione europea si è dunque attivata per impedire l’esecuzione del Lodo, dapprima ingiungendo alla Romania di sospendere «qualsiasi azione potesse dare luogo all’attuazione o all’esecuzione [del Lodo]», e poi stabilendo che il pagamento del risarcimento in esso concesso ai signori Micula costituiva un aiuto di Stato ex art. 107(1) TFUE, incompatibile con il mercato interno (decisione (UE) 2015/1470 della Commissione del 30 marzo 2015).

Tale decisione non è ancora definitiva. Annullata dal Tribunale dell’Unione europea nel 2019 – perché «il diritto dei ricorrenti di ricevere il risarcimento […] è sorto ed ha iniziato a produrre i suoi effetti nel momento in cui la Romania ha abrogato [il regime di agevolazioni], vale a dire prima dell’adesione della Romania all’Unione» (v. cause T-624/15, T-694/15 e T-704/15, European Food e a. c. Commissione, punto 78) – la stessa è stata integralmente riconfermata dalla Corte di giustizia nel 2022 – poiché «l’elemento determinante per stabilire la data in cui il diritto a ricevere un aiuto di stato è stato conferito ai suoi beneficiari […] attiene all’acquisizione, da parte di tali beneficiari, di un diritto certo a ricevere tale aiuto e al correlativo impegno, a carico dello Stato, di concedere detto aiuto»; acquisizione avvenuta solo con la sentenza della Supreme Court of the United Kingdom del febbraio 2020 (v. causa C-638/19 P, Commissione c. European Food e a., punto 123) – la quale ha altresì ordinato il rinvio della causa al Tribunale, di cui ancora si attende la pronuncia.

La vertenza non era dunque sicuramente conclusa nel 2020, quando la corte suprema britannica, contrariamente alla High Court of England and Wales e alla Court of Appeal – che avevano subordinato l’esecuzione del Lodo alla conclusione del procedimento dinanzi ai giudici dell’Unione – ha deciso di statuire nei termini descritti poc’anzi. Da ciò deriva il summenzionato procedimento di infrazione INFR(2020)2352, conclusosi, per l’appunto, con la Sentenza.

In essa, la Corte scioglie innanzitutto il nodo della sua competenza, richiamando l’accordo sul recesso del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord dall’Unione europea e dalla Comunità europea dell’energia atomica. In tal sede, infatti, si stabiliva sia l’applicabilità del diritto UE al e nel Regno Unito per tutto il c.d. “periodo di transizione” (ossia, sino al 31 dicembre 2020, art. 127(1)), sia la competenza della Corte di Lussemburgo a pronunciarsi sui ricorsi ex art. 258 TFUE promossi nei quattro anni successivi alla fine di tale periodo per violazioni del diritto UE commesse dal Regno Unito prima della scadenza dello stesso (art. 87(1)). Pertanto, dal momento che la sentenza della corte suprema britannica è stata pronunciata il 19 febbraio 2020 (dunque, ben prima della scadenza del periodo di transizione), non v’è dubbio sulla competenza della Corte a pronunciarsi nella Sentenza.

Risolta tale questione, la Corte passa immediatamente alla disamina del merito della controversia. Tuttavia, l’avvocato generale Nicholas Emiliou, nelle sue conclusioni, ha svolto alcune interessanti considerazioni anche con riferimento all’onere probatorio e alla portata dell’accertamento di merito che può essere condotto dalla Corte nell’ambito di un ricorso per inadempimento contumaciale (v. conclusioni dell’avvocato generale Emiliou, causa C-516/22, Commissione c. Regno Unito (Sentenza della Corte Suprema), punti 39-53); considerazioni di cui si propone una sintesi.

Ai sensi dell’art. 152(3) del regolamento di procedura della Corte di giustizia, infatti, la Corte, prima di pronunciare una sentenza contumaciale, deve verificare, sentito l’avvocato generale, la ricevibilità del ricorso, l’adempimento delle necessarie formalità e, soprattutto che «le conclusioni del ricorrente appaiano fondate».

Orbene, come sottolineato dall’avvocato generale Emiliou, se il richiamo all’apparente fondatezza delle conclusioni del ricorrente da un lato conferma che quest’ultimo non può dare per scontato l’automatica accettazione della sua ricostruzione da parte della Corte, dall’altro suggerisce che, nelle sue valutazioni critiche, la Corte dovrà applicare un «criterio di controllo […] relativamente benevolo nei confronti delle conclusioni del ricorrente», non essendole richiesto di «svolgere un esame completo dei fatti dedotti e degli argomenti giuridici avanzati dal ricorrente» o di «approfondi[re] le argomentazioni di fatto e di diritto che il convenuto avrebbe potuto sviluppare» (Ivi, punti 44 e 46), ma solamente di verificare se le argomentazioni del ricorrente appaiano «senza un’analisi approfondita, ragionevoli in fatto e in diritto» e siano adeguatamente sostenute dalle prove dedotte da quest’ultimo» (Ivi, punto 48).

Pertanto, laddove il ricorrente riesca a far emergere a prima vista, dalle proprie argomentazioni, la fondatezza e la ragionevolezza delle proprie conclusioni (assolvendo così al proprio onere della prova), «la Corte [dovrà] pronunciarsi a favore del ricorrente senza ulteriori indugi» (Ivi, punto 48).

Il che è esattamente quanto fatto dalla Corte, laddove ha dichiarato che tutte le quattro censure di merito sollevate dalla Commissione, relative alla violazione di diverse norme dei Trattati in combinato disposto con il già citato art. 127(1) dell’accordo di recesso, sono fondate.

Innanzitutto, il Regno Unito ha violato l’art. 351(1) TFUE, secondo cui «[l]e disposizioni dei trattati non pregiudicano i diritti e gli obblighi derivanti da convenzioni concluse […], per gli Stati aderenti, anteriormente alla data della loro adesione, tra uno o più Stati membri da una parte e uno o più Stati terzi dall’altra».

Tale norma introduce nell’ordinamento UE un meccanismo che, se da un lato tutela i diritti vantati da uno Stato terzo nei confronti di uno Stato membro in forza di una convenzione internazionale anteriore all’adesione di quest’ultimo all’Unione, indipendentemente dall’oggetto di quest’ultima, dall’altro, come sottolineato nella Sentenza (Commissione c. Regno Unito, punti 78-79), consente di derogare al fondamentale principio del primato del diritto dell’Unione sul diritto nazionale dei singoli Stati Membri, autorizzando così la disapplicazione delle norme UE (anche di rango primario).

È dunque evidente che, come sottolinea la Corte di giustizia, detto articolo, così come ogni altra norma che implica la possibilità di eccezioni alla preminenza del diritto unionale, debba essere interpretato restrittivamente. Pertanto, l’applicabilità dell’art. 351(1) TFUE è stata strettamente limitata ai casi in cui i diritti discendenti da dette convenzioni siano posti in capo a uno Stato terzo all’UE, e solo nel momento in cui il rispetto dei diritti goduti dallo Stato terzo in questione sia da quest’ultimo concretamente esigibile (Ivi, punti 64 e 83). In fattispecie, tuttavia, la controversia sottoposta dai sig.ri Micula alla corte suprema britannica non coinvolgeva alcun diritto di uno Stato terzo, dato che «mirava ad imporre a uno Stato membro, ossia il Regno Unito, l’obbligo di dare esecuzione […] a un lodo arbitrale per garantire il rispetto da parte di un altro Stato membro, nella fattispecie la Romania, degli obblighi ad esso incombenti in forza del TBI nei confronti di un ulteriore Stato membro, ossia il Regno di Svezia» (Ivi, punto 73). In tal caso, prosegue la Sentenza, «dalla giurisprudenza della Corte, come sancita dalla sentenza del 6 marzo 2018, Achmea […], risulta che il sistema dei mezzi di ricorso giurisdizionale previsto dai Trattati UE e FUE si è sostituito alle procedure di arbitrato stabilite tra gli Stati membri» (Ivi, punto 80).

È dunque sulla base di tali premesse che la Corte di Lussemburgo ha ritenuto il riconoscimento dell’applicabilità dell’art. 351(1) TFUE in fattispecie una seria violazione del diritto dell’Unione: come sottolineato dalla stessa, infatti, «non si può ammettere che un giudice di uno Stato membro, tanto meno un giudice avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno […] possa accogliere un’interpretazione errata del diritto dell’Unione il cui oggetto e effetto è escludere deliberatamente l’applicazione del complesso del diritto dell’Unione» (Ivi, punto 85).

Tuttavia, l’autorevole dottrina (P. Koutrakos, 2024) non ha mancato di rilevare come la soluzione interpretativa dell’art. 351(1) TFUE proposta dalla Corte appaia “frettolosa”. Con l’obiettivo di assicurare un’interpretazione restrittiva di tale norma e di ridurre al minimo le possibili interferenze del diritto internazionale con il diritto dell’Unione europea (in linea con la giurisprudenza – richiamata dalla stessa Corte – stabilita nella causa C-284/16, Achmea), la Corte di Lussemburgo avrebbe omesso di svolgere un apprezzamento delle norme della Convenzione ICSID alla luce dei principi di diritto internazionale (come la Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati); valutazione che, invece, sarebbe stata quantomeno opportuna, stante la complessità – e la delicatezza – dell’argomento.

La Corte ha poi stabilito la violazione anche un altro principio fondamentale del diritto UE, quello di leale collaborazione di cui all’art. 4(3) TUE.

Secondo tale norma, uno Stato membro – e, dunque, i suoi giudici – devono «adottare tutte le misure generali o particolari idonee ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione e astenersi da quelle che possono compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti dal Trattato», tra cui ricadono senz’altro anche quelli in materia di aiuti di Stato (artt. 107 e 108 TFUE) (Commissione c. Regno Unito, punto 97).

Di conseguenza, ricorda la Sentenza, qualora una controversia dipenda dalla validità o meno di una decisione della Commissione europea, il giudice dello Stato membro, agendo nel rispetto del ruolo che gli è stato conferito dai Trattati UE, dovrebbe evitare di pronunciarsi in senso contrario a quello della decisione della Commissione, sospendendo il procedimento sino ad attenderne la definitività ovvero sottoponendo alla Corte di giustizia una questione pregiudiziale sulla validità della decisione (Ivi, punto 98). Ciò sia dal momento che, come è noto, la possibilità di pronunciarsi sulla compatibilità o meno di una misura di aiuto con il mercato interno spetta solo ed esclusivamente alla Commissione europea, sia perché le decisioni della Commissione, in qualità di atti istituzionali, godono di una presunzione di legittimità sino al loro annullamento o ritiro, e la decisione della Commissione in questione aveva ritenuto che il versamento delle somme riconosciute ai sig.ri Micula a titolo di risarcimento del danno nel Lodo rappresentava una misura di aiuto incompatibile con il mercato interno dell’UE (Ivi, punti 96 e 99).

Il che è l’opposto di quanto fatto dalla corte suprema britannica, la quale si è pronunciata prima che intervenisse una decisione finale sulla vicenda (ossia, dopo l’annullamento della decisione della Commissione europea da parte del Tribunale, ma anche dopo che la Commissione aveva proposto impugnazione avverso tale ultima sentenza), e dunque, ha inevitabilmente posto in essere una violazione del dovere di leale collaborazione ex art. 4(3) TUE.

Inoltre, prosegue la Corte di giustizia, il Regno Unito ha violato anche l’art. 267, (1) e (3) TFUE, che sanciscono l’obbligo, per le corti di ultima istanza degli Stati membri dinanzi a cui siano state sollevate questioni pregiudiziali, di operarne il rinvio alla Corte, attendendo la sua pronuncia prima di decidere.

Ricorda infatti la Sentenza che tale obbligo può venir meno solamente in circostanze precise, ossia qualora una questione pregiudiziale sia identica ad altra questione sollevata in una fattispecie analoga e già decisa in via pregiudiziale (acte éclairé), qualora la risposta al quesito si trovi già nella consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia, ovvero, in ultima analisi, qualora la corretta interpretazione del diritto dell’Unione si imporrebbe con tale evidenza al giudice di ultima istanza di un qualsivoglia Stato membro, da non lasciare margini a ragionevoli dubbi (acte claire) (Ivi, punti 141 e 142).

Ebbene, rileva la Corte, le questioni giuridiche centrali in fattispecie non potevano in alcun modo essere considerate dalla corte suprema del Regno Unito acte éclairé o acte claire, in primis, dal momento che esse erano tendenzialmente nuove, come peraltro preso in considerazione dalla High Court of England and Wales e dalla Court of Appeal nei gradi di giudizio precedenti (entrambe si sono astenute dal pronunciarsi sull’applicabilità, in fattispecie, dell’art. 351(1) TFUE). Vi è poi la considerabile complessità delle questioni interpretative sollevate dal caso Micula; che discende direttamente dalla già ampiamente ricordata peculiarità dell’art. 351(1) TFUE nell’ordinamento dell’Unione europea (Ivi, punti 144 e ss.).

Tutti questi elementi avrebbero quindi dovuto suggerire alla corte suprema britannica l’esistenza di più di un ragionevole dubbio sull’interpretazione delle questioni sottese alla vicenda in esame, evidenziando l’opportunità di formulare rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia a chiarimento delle stesse prima di arrivare a sentenza.

Infine, il Regno Unito ha altresì violato l’art. 108(3) TFUE. Come ricorda la Corte, la norma pone in capo agli Stati membri due obblighi in materia di aiuti di Stato: la preventiva comunicazione di una misura di aiuto alla Commissione, e l’astensione – provvista di “effetto diretto” – dall’esecuzione di tale misura prima dell’intervento di una decisione finale di quest’ultima. Qualsiasi misura attuata in violazione di tali obblighi deve considerarsi illegittima (Ivi, punti 160-162).

Orbene, da quanto sopra consegue che i giudici dello Stato membro di volta in volta interessato, possono trarre, nel proprio ordinamento, tutte le necessarie conseguenze dalla violazione dell’art. 108(3) TFUE. In buona sostanza, ciò significa che essi potranno prendere decisioni sia sulla validità degli atti o misure per l’attuazione di tali illegittime misure d’aiuto (quali domande per ottenere il versamento di un aiuto illegittimo), sia sull’eventuale recupero di aiuti illegittimamente concessi, indipendentemente dal fatto che, come in fattispecie, l’atto o la misura di illecita attuazione dell’aiuto sia o meno coperta dall’autorità di cosa giudicata. Invero, come evidenziato dalla Corte, la supremazia del diritto dell’Unione conferisce alla regola della competenza esclusiva della Commissione a decidere della compatibilità di una misura di aiuto con il mercato interno forza superiore rispetto al principio dell’autorità della res iudicata (Ivi, punto 172).

Inoltre, se è vero che il divieto di dare esecuzione ad una misura di aiuto prima di una decisione finale della Commissione insiste sullo Stato membro che dovrebbe erogare tale misura, in ogni caso, il già citato principio di leale collaborazione ex art. 4(3) TUE impone anche agli Stati membri comunque coinvolti – come nel caso di specie il Regno Unito – il dovere di facilitare l’adempimento degli obblighi ex art. 108(3) da parte dello Stato membro su cui essi gravano(Ivi, punto 171).

Pertanto, dal momento che la decisione (UE) 2015/1470 della Commissione non era ancora diventata finale nel febbraio 2020, nonostante l’annullamento della stessa da parte del Tribunale (per le ragioni illustrate supra), e che la stessa riflette le valutazioni svolte dalla Commissione europea sin dal principio (ossia, già nell’ingiunzione di sospensione del 26 maggio 2014, non travolta dall’annullamento della decisione da parte del Tribunale), il Regno Unito avrebbe dovuto astenersi dall’adottare la Sentenza.

Oltre a fornire interessanti indicazioni sulle interazioni tra Corti europee e corti nazionali in materia di aiuti di Stato e di convenzioni internazionali concluse da parte di Stati membri, la Sentenza si inserisce nel solco di Commissione c. Francia (causa C-416/17, Commissione c. Francia (anticipo d’imposta)), entrando a far parte del ristretto numero di casi in cui una procedura ex art. 258 TFUE è stata deferita alla Corte per violazioni del diritto unionale poste in essere dalle supreme magistrature degli Stati membri mediante singole sentenze (e.g., causa C-448/23, Commissione c. Polonia, recentemente istruita) e non, come già accaduto in passato, per orientamenti giurisprudenziali (e.g., causa C-129/00, Commissione c. Italia).

La Sentenza sembra dunque voler assolvere alla funzione di monito, ricordando agli Stati membri sia che il loro inadempimento può essere dichiarato indipendentemente dall’organo dello Stato cui è imputabile, sia il peculiare ruolo che, nell’applicazione del diritto UE, assumono i giudici nazionali e specialmente i giudici di ultima istanza in forza del principio di leale cooperazione.