E. CIMIOTTA, L’ambito soggettivo di efficacia delle sentenze pregiudiziali della Corte di giustizia dell’Unione europea

Giappichelli, Torino, 2023, pp. XV-400

 

La tematica relativa all’efficacia delle sentenze pregiudiziali della Corte di giustizia dell’Unione europea non è certamente nuova in quanto se ne discute almeno dalla sentenza Da Costa en Schaake e al. del 1963. Mancava, tuttavia, a mia conoscenza, un’ampia trattazione monografica della questione e basterebbe solo questa considerazione per rendere particolarmente apprezzabile il volume in oggetto, che è opera di un giusinternazionalista che insegna presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e, di recente, è stato chiamato a Perugia, nella facoltà di Scienze Politiche, come professore di prima fascia di Diritto internazionale.

Come noto, i trattati non prevedono alcunché rispetto all’efficacia soggettiva delle sentenze pregiudiziali. Eppure, molteplici sono i soggetti nei confronti dei quali tali effetti si producono. Anzitutto, riguardano il giudice che ha operato il rinvio e concernono, poi, i giudici eventualmente coinvolti negli ulteriori gradi del medesimo procedimento nazionale. Si realizzano, altresì, nei confronti di altri giudici del medesimo Stato del giudice remittente nonché dei giudici di altri Stati membri (e pure di alcuni Stati terzi) davanti ai quali vengano discusse questioni identiche o analoghe a quelle cui la Corte di giustizia ha già dato una risposta. Ai sensi della sentenza Fratelli Costanzo e al. del 1989, possono inoltre attingere alla giurisprudenza resa su rinvio pregiudiziale le altre autorità pubbliche, segnatamente quelle amministrative, che nella loro azione siano chiamate a tener conto del dictum della Corte di giustizia (illuminante, al riguardo, è l’annosa vicenda delle concessioni demaniali marittime a finalità turistica). Infine, le sentenze pregiudiziali possono esplicare un’influenza indiretta pure nei confronti del legislatore nazionale chiamato a disciplinare questioni rette dal diritto UE, allorché, nel dare applicazione alla normativa europea deve tener conto dell’interpretazione che ne abbiano dato i giudici dell’Unione.

Ciò premesso, occorre evidenziare che l’A. ha intenzionalmente scelto di non occuparsi sia delle ricadute delle pregiudiziali sulle autorità amministrative sia del seguito che i giudici nazionali abbiano dato alle decisioni pregiudiziali nelle c.d. “sentenze in considerazione”. Rispetto a queste ultime, nonostante che neppure la Corte di giustizia sembra possedere una raccolta organica delle decisioni nazionali, sarebbe forse stato utile quanto meno procedere all’esame delle decisioni emesse dai giudici italiani, se non altro per verificarne la conformità rispetto alla tesi di fondo avanzata nel lavoro.

Correttamente l’A. si propone di esaminare la tematica alla luce dell’autonomia e della specifica natura dell’ordinamento dell’UE e dei suoi metodi di interpretazione senza farsi fuorviare da teoriche e nozioni mutuate dagli ordinamenti interni. La scelta è corretta, soprattutto trattandosi della sentenza pregiudiziale, ed è conforme a risalenti indirizzi della stessa Corte di giustizia.

Un’ultima osservazione preliminare. All’inizio della trattazione l’A. afferma che “il modo di essere e di operare” della competenza pregiudiziale “appare destinato a rimanere invariato per lungo tempo”. Questa previsione però si è dimostrata fallace. Infatti, mentre il volume era dato alle stampe, è intervenuta la richiesta formale della Corte al Consiglio di trasferire al Tribunale la competenza di conoscere determinate categorie di cause pregiudiziali, modificando l’art. 3 dello Statuto della Corte.

Il volume è articolato in sette ampi capitoli, seguiti da due sole pagine di conclusioni generali, tuttavia ciò è compensato dalle conclusioni parziali che figurano alla fine di ciascun capitolo. Sul piano formale, va notato che, contrariamente all’uso, la numerazione delle note non si interrompe al mutare del capitolo ed è invece progressiva, rendendo forse meno agevole la consultazione e la citazione.

Nel primo capitolo l’A. pone le basi della sua ricerca anticipandone le conclusioni. Per lui occorre privilegiare una “prospettiva di carattere funzionale, che valorizzi la specificità proprie di ogni singola pronuncia pregiudiziale”, dato che “ciascuna pronuncia pregiudiziale possiede una propria portata soggettiva”, che occorre esaminare puntualmente per “verificare, caso per caso, la rispettiva portata soggettiva allo scopo di comprendere se vi siano e quali siano i giudici diversi dal giudice del rinvio effettivamente interessati alla pronuncia”. L’A., in proposito ritiene che le sentenze pregiudiziali, sia quelle interpretative sia quelle per l’accertamento della validità, non possono obbligare il giudice diverso da quello del rinvio “ad adeguare ad esse il proprio criterio di giudizio in vista della risoluzione della controversia di cui sia investito”. Esse, al più, hanno una rilevanza “orientativa”, per il detto giudice, obbligandolo soltanto a motivare la ragione per la quale intenda discostarsene.

Il secondo capitolo è dedicato alle diverse posizioni dottrinali sull’ambito soggettivo di efficacia delle sentenze pregiudiziali e i loro limiti. Tre, come noto, sono le principali teorie di riferimento, a loro volta distinte in diversi filoni a seconda degli autori. La prima posizione sostiene l’efficacia endoprocessuale, circoscritta quindi al solo giudice del rinvio ed al relativo processo, cui, all’evidenza, consegue che le relative pronunce sarebbero prive dell’autorità di cosa giudicata. Questo indirizzo, se si guarda all’evoluzione della giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, è il più risalente e mantiene separate le sentenze di accertamento di validità da quelle interpretative. Le prime, ovviamente direi, hanno effetti circoscritti alle sole parti della causa principale e l’atto, eventualmente ritenuto invalido, non è espunto dall’ordinamento dell’Unione, come accade invece all’atto annullato; le seconde, poi, godrebbero di autorità relativa di cosa giudicata, attesa la possibilità per un giudice diverso di reinterrogare la Corte qualora non convinto della soluzione. Al riguardo, taluni autori sostengono che le sentenze pregiudiziali hanno valore di “precedente” per i giudici diversi da quello remittente. Altri autori, invece, procedono a più puntuali differenziazioni distinguendo, da un lato, l’autorità della sentenza interpretativa, che può spiegarsi oltre il procedimento in cui si incardina, qualora di fronte ad un nuovo giudice si ponga una identica questione e, dall’altro, gli effetti giuridici formali che invece si esaurirebbero all’interno di esso.

Per una seconda teoria, quella dell’efficacia vincolante in senso formale, che può essere anche etichettata come dell’efficacia erga omnes de iure, le sentenze pregiudiziali assumerebbero un valore generale ed esplicherebbero i loro effetti vincolanti anche al di fuori del caso concreto e, quindi, vincolerebbero in senso stretto tutti i giudici. L’A. individua, pure rispetto a questa corrente di pensiero, una pluralità di indirizzi diversi, distinguendo tra chi fa leva sulla distinzione fra efficacia del precedente con riguardo alla ratio decidendi e l’autorità di cosa giudicata che invece concerne il decisum. Altri ritengono che i giudici diversi da quello del rinvio sarebbero obbligati e non solo facoltati a disapplicare l’atto dichiarato invalido, salva la possibilità di procedere ad un nuovo rinvio alla Corte. Inoltre, dell’atto dichiarato invalido devono tener conto tutti gli organismi nazionali, con la conseguenza che essi non potrebbero più fondare su di esso la propria attività. Altri ancora rilevano che tutte le sentenze pregiudiziali hanno effetti ultra partes e sarebbero dotate di ultrattività, con l’estensione dell’autorità di cosa giudicata in senso sostanziale.

Per una terza prospettazione teorica, che si pone per certi versi su un crinale intermedio tra le due precedenti, le sentenze pregiudiziali il cui indirizzo giurisprudenziale si fosse consolidato avrebbero una efficacia vincolante in senso sostanziale, ovvero erga omnes de facto, che travalica il processo principale e ciò attraverso la combinazione di due elementi: per un verso, la facoltà del giudice di disapplicare atti dichiarati invalidi e, per l’altro, il divieto di disapplicare gli atti la cui invalidità non sia stata previamente accertata. Altri autori, tramite la trasposizione di concetti propri del diritto processuale civile italiano al processo UE, ritengono che le sentenze di cui si discute avrebbero una efficacia pan-processuale, almeno quando si fosse in presenza di questioni materialmente identiche o analoghe a quelle già risolte in via pregiudiziale.

Dopo aver sottoposto a stringente critica le tre richiamate posizioni teoriche nelle loro diverse varianti, l’A., nel terzo capitolo del volume in discorso, esamina “gli effetti associati dal diritto interno alle sentenze in quanto provvedimenti giurisdizionali ed il loro rilievo ai fini dell’individuazione degli effetti prodotti dalle sentenze pregiudiziali”. Titolazione probabilmente sovrabbondante trattandosi, più semplicemente di valutare alcuni istituti del diritto processuale di diritto continentale e di common law, utilizzati per indicare gli effetti delle pronunce in esame. L’A. si riferisce, specificamente, alle nozioni di giudicato, di efficacia erga omnes, di precedente giudiziario vincolante, talvolta pure utilizzate dalla Corte di giustizia, nonché alla c.d. efficacia “normativa” della giurisprudenza, concetti che non ritiene possibile associare alle pronunce pregiudiziali.

Il quarto capitolo è consacrato al problema della portata soggettiva delle sentenze pregiudiziali letta alla luce del rapporto intercorrente tra giudizio principale e processo pregiudiziale. Al riguardo l’A. prende le distanze dalla soluzione unitaria seguita da una parte importante della dottrina per sposare una prospettiva di carattere funzionale volta a valorizzare le specificità di ogni singola pronuncia, in ragione dei fattori che la contraddistinguono. L’A. muove dalla relazione collaborativa e non gerarchica tra la Corte ed il giudice del rinvio per la determinazione della portata soggettiva delle pronunce pregiudiziali, rilevando che la prospettiva dell’automatica ultrattività in ogni caso dovrebbe essere dimostrata sulla base di elementi incontrovertibili. Tuttavia, per un verso, i giudici diversi da quello del rinvio sono estranei a qualsiasi relazione di pregiudizialità e, per altro verso, l’eventuale limitazione temporale della decisione pregiudiziale è chiaramente circoscritta al solo Stato del giudice remittente. Cosicché per l’A. la portata soggettiva delle sentenze pregiudiziali non sembra potersi aprire sempre e comunque alla generalità dei giudici degli Stati membri né – e questo è piuttosto pacifico – gli effetti prodotti sono coincidenti per i giudici diversi dal remittente.

Il quinto capitolo si concentra sui fattori in grado di diversificare la portata soggettiva delle sentenze pregiudiziali, che precludono qualsiasi ricostruzione di stampo unitario. Tali fattori concernono la natura, la funzione e l’oggetto della competenza pregiudiziale di volta in volta esercitata dalla Corte nonché la pertinenza rispetto ad un giudice diverso da quello del rinvio. Al riguardo l’A. individua diversi gradi di incidenza delle sentenze pregiudiziali, da quello minimo, in cui la pronuncia si dirige solo nei confronti del giudice a quo, a quello massimo, che si dirige ai giudici di tutti gli Stati membri, a tutta una serie di situazioni intermedie, in cui la possibilità che la pronuncia venga ad interessare altri giudici diversi da quello del rinvio va determinata caso per caso, soprattutto distinguendo la competenza interpretativa da quella per l’accertamento della validità degli atti di diritto derivato. In particolare, l’A. contesta, appoggiandosi ad un recente sviluppo giurisprudenziale, che la competenza pregiudiziale interpretativa sia volta, principalmente, ad assicurare l’uniforme interpretazione del diritto dell’Unione. Per quanto riguarda, poi, le sentenze concernenti l’accertamento di validità, viene escluso che le dichiarazioni di invalidità possano avere effetti vincolanti generalizzati, carattere che manca, all’evidenza, alle dichiarazioni di validità, legate – come sono – agli specifici vizi invocati dal giudice a quo, come pure alle decisioni che, contemporaneamente, si occupano dei due profili dell’art. 267 TFUE.

Anche con riguardo alle sentenze pregiudiziali espressive del c.d. uso alternativo del rinvio interpretativo volto a valutare la compatibilità di disposizioni nazionali con il diritto UE, segnatamente quando abbiano ad oggetto una disciplina non univocamente armonizzata, l’A. sostiene l’inidoneità della decisione a travalicare il perimetro della causa pregiudiziale, pur essendo innegabile l’efficacia extraprocessuale sugli altri giudici appartenenti al medesimo ordinamento giuridico del remittente, situazione verificabile anche a proposito delle sentenze in cui si discuta dell’identità nazionale di un determinato Stato membro ai sensi dell’art. 4, par. 2, TUE. Inoltre, con riguardo all’oggetto della competenza pregiudiziale, in disparte, forse, dalla troppo estesa digressione sugli atti che possono essere oggetto di interpretazione o di accertamento di validità, l’A. pone l’accento sul fatto che la portata soggettiva risenta dell’ambito di applicazione della disposizione cui si riferisca l’interpretazione o l’accertamento di validità della Corte di giustizia. In questo ambito è convincente sostenere che giudici diversi dal giudice a quo non possano restare estranei alle pronunce pregiudiziali relative a profili sistematici o strutturali del diritto dell’Unione, quali, in particolare, per un verso, l’efficacia del diritto UE nei diritti nazionali e il rapporto con le norme interne, i rimedi in caso di violazione, l’autonomia processuale, il ruolo della Carta dei diritti fondamentali e, per altro verso, tutta la elaborazione giurisprudenziale relativa al ruolo del rinvio pregiudiziale, escludendo, correttamente, l’interpretazione di disposizioni non più in vigore o aventi una portata spaziale limitata soltanto ad alcuni Stati membri, come accade nelle cooperazioni rafforzate, ove la sfera soggettiva inevitabilmente si contrae.

Al cuore della tesi esposta nel volume sono dedicati i due ultimi capitoli. Nel capitolo sesto vengono esaminati gli effetti prodotti da una sentenza pregiudiziale nei confronti di giudici diversi dal giudice a quo. L’A. comincia con rilevare che le sentenze pregiudiziali non producono di per sé autorità di cosa giudicata in senso sostanziale o effetti giuridicamente vincolanti erga omnes, e ciò nonostante il consolidato, diverso avviso della giurisprudenza – nel caso dell’Italia quella della Corte costituzionale e della Corte di cassazione. Questa tesi pare però alquanto contraddittoria nella misura in cui, allorché l’A. nega che la Corte di giustizia goda di un vero e proprio monopolio dell’interpretazione e degrada il suo ruolo a quello di “interprete particolarmente qualificato” del diritto dell’Unione, utilizza proprio una formula notoriamente coniata proprio dalla nostra Consulta.

Quanto, poi, alla comunicazione della domanda pregiudiziale a tutti gli Stati membri, tradotta nella lingua di ciascuno di essi a cura della Corte di giustizia, il cui rilievo l’A. svaluta con un’argomentazione non proprio limpida, va detto che la sua finalità sta invece proprio nell’idoneità dell’emananda sentenza pregiudiziale a spiegare i propri effetti al di là del giudizio a quo, all’evidenza potendo influenzare l’attività di tutti gli altri organi giurisdizionali dell’Unione. Poco rileva, al riguardo, la frequenza e numerosità della partecipazione degli Stati membri, che dipende invece dalla migliore o peggiore organizzazione degli uffici nazionali a ciò preposti.

La rilevanza per i giudici diversi da quello del rinvio sarebbe quindi per l’A. di carattere meramente orientativo: devono sì prendere in considerazione ma non sono affatto obbligati ad uniformarsi alle statuizioni della Corte in via meccanica ed automatica. Le pronunce pregiudiziali, seguendo questo punto di vista, costituirebbero una sorta di “guida” all’applicazione del diritto dell’Unione, una guida, tuttavia, a cui i detti giudici sono obbligati dal principio di leale cooperazione, di cui all’art. 4, par. 3, TUE. Questa rilevanza solo orientativa sarebbe pure confermata dalla facoltà di domandare alla Corte di giustizia una pronuncia sulla medesima questione già risolta dai giudici di Lussemburgo. Certo, qualora il giudice nazionale non ritenga di conformarsi alla giurisprudenza consolidata è astretto dall’obbligo di motivare in via addizionale eventuali soluzioni interpretative alternative, obbligo che deriva direttamente proprio dal diritto all’equo processo, come affermato dalla Corte di giustizia, a pena di esporre lo Stato membro alla violazione del principio dello Stato di diritto. Se, invece, la giurisdizione apicale ritenga di aderire alla sentenza pregiudiziale, specie quando essa riguarda l’interpretazione di disposizioni di diritto primario o di atti di portata generale, lo fa per liberarsi dall’obbligo di rivolgersi ai giudici di Lussemburgo, ritenendo che si sia in presenza di un acte éclairé ai sensi della sentenza Cilfit del 1982.

Ancora, a proposito della violazione dell’obbligo di effettuare un rinvio, l’A. fa rilevare che questa “ribellione” non sia stata oggetto di ricorsi di inadempimento promossi dalla Commissione, anche se, a dire il vero, bisogna ricordare che se la Commissione in passato avviò procedure precontenziose ma non le coltivò fino alla fase contenziosa, dopo la sentenza 4 ottobre 2018 nella causa C-416/17, Commissione c. Francia, il mancato rimborso di una imposta percepita in violazione del diritto dell’Unione, come interpretato dalla Corte in via pregiudiziale, unitamente all’omesso rinvio da parte di una giurisdizione di ultima istanza costituisce violazione degli obblighi incombenti allo Stato membro.

Il settimo ed ultimo capitolo riguarda i fattori in grado di determinare l’intensità della detta rilevanza orientativa della sentenza pregiudiziale rispetto a giudici diversi da quello del rinvio. Tali fattori sono tre e riguardano il consolidamento della giurisprudenza nel cui alveo si colloca la sentenza pregiudiziale, l’autorevolezza del collegio che l’ha emessa e la chiarezza argomentativa. L’A. nega che anche in presenza dei tre fattori indicati la pronuncia pregiudiziale diventi vincolante per ogni giudice nazionale, riducendone soltanto il proprio margine di autonomia. Quanto alla cristallizzazione della giurisprudenza e al numero di pronunce perché tale effetto si concreti è ragionevole che non basti una sola sentenza o che l’indirizzo giurisprudenziale non sia univoco. Circa l’autorevolezza essa è tanto più elevata all’aumentare del numero dei componenti il collegio giudicante. Infine, le decisioni che tengono conto delle peculiarità normative e giurisdizionali degli Stati membri, segnatamente delle identità e tradizioni giuridiche nazionali sono molto più accettabili come guida interpretativa.

Come ho segnalato, alle conclusioni generali del lavoro sono dedicate due sole pagine. L’A. vi ribadisce che l’efficacia solo orientativa delle decisioni pregiudiziali per i giudici diversi dal giudice a quo, e la correlata discrezionalità loro attribuita, non compromette la prevedibilità e la stabilità della giurisprudenza e, pertanto, non arreca alcuna minaccia al principio dello Stato di diritto. Il detto principio, d’altra parte, è salvaguardato dai rimedi giurisdizionali apprestati sia dall’ordinamento dell’Unione sia da quelli nazionali. Ma anche a prescindere dai segnalati rimedi, l’A., riepilogando i risultati della sua ricerca, ritiene che la “modalità predefinita naturale” per i giudici dell’Unione sarà quella di “conformarsi spontaneamente alle, anziché distanziarsi dalle” sentenze pregiudiziali. Conclusione che può essere pacificamente condivisa anche da chi ha sempre ritenuto che il dialogo tra i giudici di Lussemburgo e quelli nazionali, essendo volto ad assicurare l’applicazione uniforme e la certezza del diritto dell’Unione, comporti di intendere l’efficacia delle decisioni pregiudiziali in chiave erga omnes.

Il volume si conclude con l’elenco delle opere citate, che prende ben 24 pagine. La bibliografia è quindi ampia e comprende (quasi) tutti gli scritti rilevanti sulla questione, specie quelli pubblicati da autori italiani. Sorprendono, tuttavia, alcune assenze, quali l’ampio saggio di Federico Mancini sull’art. 177 CEE, basato sulla relazione tenuta a Chianciano il 23 aprile 1987, pubblicata nel volume del CSM su Diritto comunitario e diritto interno (1988) ed anche il lavoro sull’attivismo e l’autocontrollo nella giurisprudenza della Corte di giustizia (1990) nonché quello coevo di Luigi Ferrari Bravo. Tra i dettagli, colpisce veder menzionate le conclusioni dell’avvocato generale Dámaso Ruiz-Jarabo Colomer, soltanto con la seconda parte del cognome, cioè Colomer, uso davvero non abituale quando si menzionano autori iberici. E ciò specialmente perché tra gli studiosi del diritto dell’Unione (o comunitario come piace ancora a molti) il compianto Dámaso è noto anche per molteplici scritti, pure monografici, proprio sulla competenza pregiudiziale, tematica alla quale si era particolarmente interessato. E, ancora, il lettore che frequenta da qualche tempo gli scritti della dottrina di diritto dell’Unione europea noterà la ripetuta citazione di Thijmen (Tim) Koopmans, con il cognome mancante della “s” finale, un refuso poco giustificabile, trattandosi di un protagonista della scienza giuridica del Novecento oltreché di un eminente ex giudice della Corte di giustizia.

Questi dettagli, tuttavia, non impediscono di considerare il lavoro come un contributo rilevante agli studi sull’efficacia della sentenza pregiudiziale, apprezzabile, soprattutto, per le conoscenze di teoria generale, l’approfondita disamina giurisprudenziale, il rigore dell’analisi e l’ampiezza delle situazioni considerate.