La Cour de justice se prononce à nouveau sur la primauté, l’effet direct et l’ordre juridique roumain

Corte giust., 26 settembre 2024, causa C-792/22, Energotehnica

La Corte di giustizia si pronuncia, una volta ancora, su primato, effetto diretto e ordinamento romeno

Once Again, the Court of Justice Rules on Primacy, Direct effect and the Romanian Legal Order

Il rimedio della disapplicazione della norma nazionale contrastante con il diritto dell’Unione europea (UE) rimane, tutt’oggi, una problematica attuale e controversa dei rapporti tra ordinamenti.

Con la sentenza Energotehnica del 26 settembre 2024 (C-792/22), la Corte di giustizia (CG) – adita in via pregiudiziale dalla Corte di Appello di Brașov – ha ribadito l’obbligo per i giudici di uno Stato membro di disapplicare una norma procedurale che impedisca loro di disattendere, o come scrive la stessa Corte, di «disapplicare d’ufficio», le decisioni della propria Corte costituzionale, qualora queste siano in contrasto con la direttiva n. 89/391/CEE, la direttiva quadro sulla sicurezza e salute sul lavoro (SSL). Come ricordato dalla CG, l’esercizio di tale obbligo – in quanto proveniente dal diritto UE – non può in alcun modo giustificare l’applicazione di sanzioni disciplinari ai danni dei giudici nazionali.

Il caso in esame trae origine dal decesso per elettrocuzione di un elettricista, dipendente della società romena Energotehnica, avvenuto durante un intervento su un impianto elettrico. In seguito a tale evento, venivano avviati due procedimenti paralleli. Da un lato, l’autorità amministrativa territoriale, l’ITL, promuoveva un procedimento amministrativo nei confronti del datore di lavoro qualificando l’intervento alla stregua di un «infortunio mortale sul lavoro». Su istanza del datore di lavoro, il Tribunale superiore di Sibiu annullava parzialmente il verbale di indagine amministrativa emesso dall’ITL. Tale decisione veniva successivamente confermata dalla Corte d’appello di Alba Iulia. Dall’altro lato, la procura intentava un procedimento penale nei confronti di MG, dipendente con il ruolo di caposquadra, accusato di aver impartito l’ordine verbale alla vittima senza l’adozione delle misure di sicurezza necessarie. Nell’ambito di tale procedimento, i familiari della vittima si costituivano parte civile nei confronti di MG ed Energotehnica. Tuttavia, il Tribunale di primo grado di Rupea assolveva il caposquadra dai reati contestati ritenendo infondata l’azione civile intrapresa nei confronti di costui e del datore di lavoro. A seguito dell’impugnazione, la Corte d’Appello di Brașov dichiarava che la sentenza del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 52, par. 3, del codice di procedura penale (c.p.p.), avesse autorità di cosa giudicata. Nel farlo, la Corte sottolineava che la qualificazione dell’intervento come «infortunio sul lavoro» da parte del giudice amministrativo costituiva una questione preliminare per la definizione della causa dinanzi al giudice penale. A sostegno di questa interpretazione, la Corte d’Appello richiamava la decisione n. 102/2021 del 17 febbraio 2021 della Corte costituzionale romena, secondo cui, nel procedimento penale, le questioni preliminari di competenza di giudici diversi da quello penale devono essere esaminate prima delle questioni di merito. In tale senso, il riconoscimento di autorità di cosa giudicata della sentenza del giudice amministrativo impedisce al giudice penale di acquisire nuovi elementi di prova. Tali elementi risultano utili per ravvisare, nel caso di specie, una responsabilità penale nei confronti del caposquadra e, di conseguenza, una responsabilità civile nei suoi confronti e nei confronti del datore di lavoro.

In tali circostanze, la Corte d’appello di Brașov ha sottoposto alla CG due questioni pregiudiziali. Con la prima, il giudice del rinvio ha chiesto se la normativa nazionale di cui all’art. 52 del c.p.p., così come interpretata dalla Corte costituzionale romena, fosse compatibile con il principio della protezione dei lavoratori, sancito all’art. 1, parr. 1 e 2, della direttiva n. 89/301, e con il principio della responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 5, par. 1, della medesima direttiva, in combinato disposto con l’art. 31 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e con il principio di effettività. Al riguardo, il giudice del rinvio sottolineava che la sentenza amministrativa era stata adottata a seguito di un procedimento svolto senza la partecipazione dei familiari della vittima, cioè in contraddittorio unicamente fra il datore di lavoro, quale parte istante, e l’autorità amministrativa statale.

In caso di risposta affermativa al primo quesito, il giudice del rinvio ha chiesto se, alla luce del principio del primato del diritto UE, una normativa procedurale romena sia incompatibile con il diritto dell’Unione nella misura in cui, tale normativa, vieti ai giudici ordinari di «disapplicare d’ufficio» – a pena di procedimenti disciplinari a loro carico – le decisioni della propria Corte costituzionale, qualora tali decisioni violino i diritti derivanti dalla direttiva 89/391. L’accertamento di tale incompatibilità comporterebbe il ricorso al rimedio della disapplicazione, ossia l’obbligo per i giudici ordinari di non applicare la norma procedurale in contrasto con il diritto dell’Unione. In tale contesto, l’obbligo di disapplicazione della norma procedurale implica, quale diretta conseguenza, il dovere per i giudici ordinari di disattendere le decisioni della propria Corte costituzionale che risultino in violazione del diritto dell’Unione. Pertanto, il concetto di “disapplicazione d’ufficio”, così come formulato dal giudice del rinvio, consente ai giudici ordinari di garantire autonomamente, e dunque d’ufficio, l’effettività del diritto dell’Unione, senza incorrere in alcuna sanzione disciplinare e senza necessità di attendere interventi legislativi o ulteriori pronunce da parte di organi giurisdizionali superiori.

In tale contesto, si ritiene necessario evidenziare due aspetti preliminari. Da un lato, la disapplicazione come rimedio derivante dal diritto UE si riferisce alla norma procedurale romena che obbliga i giudici ordinari ad attuare le decisioni della propria Corte costituzionale, anche quando tali decisioni violano il diritto dell’Unione. Dall’altro lato, il concetto di “disapplicazione d’ufficio”, impiegato dalla CG, implica il dovere dei giudici ordinari di non seguire le decisioni della propria Corte costituzionale, ove contrastanti con il diritto UE. Pertanto, il riferimento alla “disapplicazione d’ufficio” rappresenta la conseguenza diretta della disapplicazione, quale prodotto di primato ed effetto diretto, come sarà ulteriormente chiarito nel prosieguo della nostra analisi, della normativa procedurale nazionale. In senso stretto, infatti, in assenza di una normativa interna contrastante con il diritto UE e, contestualmente, in presenza di una prassi costituzionale incompatibile con il diritto UE, lo strumento dell’interpretazione conforme parrebbe essere il rimedio più adeguato, in quanto maggiormente aderente a logica e caratteristiche dell’ordinamento dell’Unione (si v. sul tema dell’interpretazione conforme D. Gallo, Direct Effect in EU Law, Oxford, 2025, in corso di pubblicazione, cap. 5).

A livello testuale, il concetto di “disapplicazione d’ufficio” emerge chiaramente sia nel secondo quesito posto dalla Corte di appello di Brașov nel proprio rinvio pregiudiziale, sia nella risposta fornita dalla CG al punto 68 della sentenza (v. il rinvio pregiudiziale della Corte di Appello di Brașov). Tale termine, seppur innovativo, si inserisce nel solco di una prassi giurisprudenziale consolidata che impone ai giudici ordinari di disapplicare “di propria iniziativa” le disposizioni nazionali contrastanti con il diritto UE, includendo, in tale ragionamento, anche le norme che impongono di attendere le decisioni della propria Corte costituzionale. A titolo esemplificativo, nella sentenza A contro B e altri (C-112/13) la CG ha confermato, in linea con la prassi precedente, l’obbligo dei giudici ordinari, nell’ambito delle proprie competenze, di garantire la piena efficacia del diritto dell’UE «disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione nazionale contrastante, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale» (corsivo aggiunto). Quanto alla prassi precedente, v. le sentenze Simmenthal, 106/77, punti 21 e 24; Bauer, C- 187/00, punto 73; Berlusconi, C-387/02, C-391/02 e C-403/02, punto 72; Filipiak, C-314/08, punto 81; Melki e Abdeli, C-188/10 e C-189/10, punto 43; Åkerberg Fransson, C-617/10, punto 45, nonché la giurisprudenza ivi citata).

Il governo romeno, nelle sue osservazioni ex art. 23 Statuto, ha contestato l’applicazione ratione materiae della direttiva, sostenendo che essa si riferisce unicamente alla responsabilità del datore di lavoro (art. 5, par. 1), senza prevedere obblighi specifici per il caposquadra, lavoratore dipendente della società. La mancanza di accuse a carico del datore di lavoro nel procedimento penale principale, secondo il governo, escluderebbe la competenza delle Corte di Lussemburgo a pronunciarsi sulle due questioni pregiudiziali. In tale contesto, il governo romeno ha sostenuto l’irricevibilità della prima e, in quanto connessa, della seconda questione pregiudiziale.

Le argomentazioni del governo non sono condivisibili per tre ordini di ragioni.

In primo luogo, così come espresso dall’AG Rantos al par. 34, la costituzione di parte civile dei familiari della vittima, nei confronti sia di Energotehnica sia di MG, è sufficiente a dimostrare il coinvolgimento del datore di lavoro nel procedimento principale, indipendentemente dalla natura civile o penale di tale responsabilità. In particolare, la direttiva comprende, fra gli obblighi del datore di lavoro, quello di «garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori in tutti gli aspetti connessi con il lavoro» (art. 5, par. 1, corsivo aggiunto), riconoscendo che «gli obblighi dei lavoratori nel settore della sicurezza e della salute durante il lavoro non intaccano il principio della responsabilità del datore di lavoro» (art. 5, par. 3). Di conseguenza, la direttiva impone agli Stati membri di adottare misure idonee a migliorare le condizioni di salute e sicurezza secondo il principio della responsabilità del datore di lavoro (art. 1, parr. 1 e 2).

In secondo luogo, come affermato dalla CG al punto 38, la responsabilità civile di Energotehnica è subordinata alla qualificazione dell’intervento come infortunio sul lavoro e, dunque, al riconoscimento della responsabilità penale di MG. Ai sensi del diritto UE, il lavoratore è obbligato a «prendersi ragionevolmente cura della propria sicurezza e della propria salute nonché di quelle delle altre persone su cui possono ricadere gli effetti delle sue azioni o omissioni sul lavoro» (art. 13, par. 1, direttiva). Il lavoratore, inoltre, è tenuto a svolgere le proprie mansioni conformemente alla loro formazione e alle istruzioni fornite dal datore di lavoro (art. 13, par. 2, direttiva). Pertanto, l’inosservanza degli obblighi da parte del lavoratore comporta una responsabilità diretta di quest’ultimo e, indirettamente, del datore di lavoro, il quale è chiamato a garantire la formazione e la supervisione del personale. L’assenza di Energotehnica nel procedimento principale non esclude, quindi, gli obblighi del caposquadra e, di conseguenza, del datore di lavoro, poiché sono strettamente legati al principio della responsabilità del datore di lavoro sancito all’art. 5, par. 1, della direttiva.

In terzo luogo, si deve aggiungere che il ragionamento presentato dal governo esclude qualsiasi considerazione sulla distinzione tra gli obblighi del datore di lavoro sanciti dalla direttiva 89/391 e il regime di responsabilità oggettiva, sia essa civile o penale. Secondo il governo, la presenza di accuse a carico del datore di lavoro nel procedimento principale consentirebbe di affermare l’applicazione materiale della direttiva, si intende il principio di responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 5, par. 1, della direttiva. Tuttavia, la Corte ha chiarito che tale disposizione si «limita […] a sancire l’obbligo generale di sicurezza in capo al datore di lavoro, senza pronunciarsi su una qualsiasi forma di responsabilità, in particolare su una responsabilità oggettiva» (così come riportato nella sentenza Commissione c Regno Unito, C-127/05, punto 42). La direttiva quadro stabilisce, perciò, unicamente l’obbligo di assicurare la sicurezza e la salute dei lavoratori, senza comportare un obbligo di compensare i danni derivanti da infortuni sul lavoro o determinare la natura della responsabilità da imporre al datore di lavoro (posizione già chiarita dalla CG nelle sentenze Commissione c Regno Unito, C-127/05, punto 29, e Commissione c Austria, C-428/04, punto 49). Non è dunque possibile dedurre che il legislatore intenda obbligare gli Stati membri a prevedere un regime di responsabilità oggettiva a carico dei datori di lavoro (chiarito dalla CG nella sentenza Commissione c Regno Unito, C-127/05, punto 47).

Inoltre, l’equivalenza tra la nozione di obbligo e quella di responsabilità rischia di estendersi anche al lavoratore, poiché l’art. 13 impone specifici obblighi a suo carico, la cui inosservanza potrebbe generare una responsabilità autonoma, indipendentemente dal coinvolgimento del datore di lavoro. Tuttavia, la Corte non si sofferma, come probabilmente avrebbe dovuto, sulla distinzione fra obbligo e responsabilità, ritenendo ricevibili il primo e, di conseguenza, il secondo quesito poiché «diriment[i] ai fini dell’esito del procedimento dinanzi al giudice del rinvio» (come riportato nella sentenza, punto 38).

La sentenza in oggetto presenta un carattere inedito già a partire dalla prima questione pregiudiziale. Prima di capire perché sia inedita, va osservato che, in linea con la giurisprudenza precedente, la CG ha riaffermato il rispetto del principio di effettività del diritto dell’Unione quale limite al principio dell’autonomia procedurale degli Stati membri nell’attuazione delle direttive (si veda sul principio di effettività, in particolare, C. Iannone, 2023, pp. 35-38 e, da ultimo, si segnala la sentenza BE, C-132/21, punto 48). In assenza di una disciplina uniforme di diritto UE, come noto, gli Stati membri possono definire le modalità procedurali per l’attuazione del diritto UE nel rispetto di due vincoli giurisprudenziali (sul principio di autonomia procedurali, si vedano, in particolare, le sentenze Rewe, 33-76, punto 5; Comet, 45-76, punto 13; San Giorgio, 199/82, punto 4): il principio di equivalenza e, in particolare, per quanto qui interessa, il principio di effettività (sulla definizione dei due principi si segnala, in particolare, le sentenze Cabinet de avocat, C-424/19, par. 25, e Ibercaja Banco SA, C-600/19, par. 41-44; di particolare rilievo sui menzionati principi risulta il contributo di K. Lenaerts, The Decentralised Enforcement of EU Law: The Principles of Equivalence and Effectiveness, in AA.VV., Scritti in onore di Giuseppe Tesauro, Editoriale scientifica, 2014, p. 1057 ss.).

La novità della sentenza Energotehnica consiste nel fatto che la Corte estende l’ambito di applicazione del principio di effettività a un’ulteriore area del diritto UE priva di armonizzazione, la politica sociale. In tale contesto, l’art. 153 TFUE ha imposto un livello minimo di protezione, lasciando ampio margine di manovra agli Stati membri nell’attuazione degli obiettivi stabiliti dalla direttiva 89/391. Tale disposizione deve essere letta in combinato disposto, da un lato, con l’art. 4, par. 2, TFUE, che classifica la politica sociale come competenza concorrente e, dall’altro lato, con l’art. 5, par. 3, TFUE, ai sensi del quale l’Unione deve limitarsi a adottare mere politiche di coordinamento. Altresì, come affermato dalla CG al punto 50, l’art. 31 della Carta non ha precisato le modalità procedurali dei ricorsi destinati ad accertare la responsabilità per infortuni sul lavoro.

Nel caso di specie, la CG ha valutato se l’architettura interna che impone l’applicazione del principio di autorità di cosa giudicata/res judicata – come disciplinato dall’art. 52 c.p.p. – possa pregiudicare l’efficacia della direttiva 89/391. A tal riguardo, occorre ricordare che il riconoscimento dell’autorità di cosa giudicata della sentenza del giudice amministrativo impedisce la prosecuzione del procedimento penale e, pertanto, l’acquisizione di ulteriori elementi di prova da parte dei familiari della vittima (in tal senso v. la sentenza, punti 55 e 56). Tali elementi sono fondamentali per infliggere una sanzione penale a MG, nonché per determinare la responsabilità civile di quest’ultimo e di Energotehnica. L’AG Rantos ha osservato, al par. 48 delle sue conclusioni, che «il semplice fatto che la giurisdizione amministrativa sia preponderante rispetto a quella penale non può, in quanto tale, implicare un’amministrazione della giustizia meno buona». Una siffatta articolazione interna potrebbe evitare decisioni contrastanti e, di conseguenza, garantire il rispetto del principio di certezza del diritto (in argomento, v. anche Parlamento c. Consiglio, C-48/14, punto 45).

Tuttavia, il diritto di essere ascoltato – garantito all’art. 47 della Carta – sarebbe leso qualora i familiari non fossero coinvolti in qualsivoglia procedimento relativo all’accertamento della responsabilità, sia essa civile o penale. Nel caso di specie, l’efficacia del diritto UE risulta compromessa, in quanto il giudizio amministrativo si è svolto unicamente in contraddittorio fra l’autorità amministrativa e il datore di lavoro, senza il coinvolgimento dei familiari della vittima (come chiarito nella sentenza, punto 57). In tal senso, la mancata partecipazione dei familiari, unita all’autorità di cosa giudicata della sentenza resa nel processo amministrativo, fa sì che questi ultimi risultino privati della possibilità di far valere i loro interessi in qualsiasi giurisdizione, sia essa civile che penale e che siano, pertanto, soggetti a una decisione amministrativa adottata sulla base di dichiarazioni rese da soggetti terzi, cioè i colleghi di lavoro (per un approfondimento sull’indagine amministrativa si vedano le conclusioni dell’AG Rantos, parr. 17 e 18). Di conseguenza, il tema centrale della prima questione preliminare riguarda la compatibilità del principio di effettività del diritto UE con il riconoscimento dell’autorità di cosa giudicata/res judicata della sentenza amministrativa.

Tale riconoscimento impedirebbe al giudice penale di acquisire nuovi elementi probatori e, quale conseguenza, pregiudicherebbe la possibilità di accertare la responsabilità, sia essa civile, sia penale. In particolare, il diritto dei familiari della vittima di essere ascoltati risulterebbe compromesso in quanto questi non hanno avuto, dapprima, la possibilità di esprimere la loro posizione nel procedimento amministrativo e, successivamente, risulterebbero privati – a seguito del riconoscimento dell’autorità giudicata della sentenza amministrativa nel penale – della possibilità di far valere i loro interessi dinanzi al giudice di rinvio. Di contro, il mancato riconoscimento dell’autorità di cosa giudicata nel procedimento penale consentirebbe l’acquisizione di nuovi fatti per valutare la responsabilità del datore di lavoro e del caposquadra, rendendo, dunque, il procedimento penale l’unica sede in cui i familiari della vittima possano essere effettivamente ascoltati.

In questo senso, l’effettività del diritto dell’UE, intesa come la possibilità di garantire il diritto di ascolto dei familiari della vittima, si realizza nel dovere del giudice penale di ignorare il giudicato della sentenza amministrativa, qualora questa pregiudichi i diritti dei familiari. A tal riguardo, il giudice penale dovrebbe ignorare l’efficacia di giudicato della sentenza amministrativa per consentire ai familiari di partecipare al processo e far valere i propri diritti. Pertanto, si deduce che l’articolazione interna, come disposta dall’art. 52 c.p.p. rende impossibile o eccessivamente difficile il diritto di essere ascoltati dei familiari della vittima (per un approfondimento sul principio di effettività rispetto all’art. 47 della CDUE, v., in particolare, R. Mastroianni, 2018).

In definitiva, l’impossibilità di acquisire ulteriori elementi di prova nel procedimento principale costituisce una violazione della direttiva 89/391, in combinato disposto con il principio di effettività e il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva garantito dall’art. 47 della Carta. In tal senso, la CG ha ignorato quanto precedentemente stabilito in materia di IVA, dove la sospensione di una decisione amministrativa da parte del giudice tributario ha evitato decisioni contraddittorie e, dunque, garantito il rispetto del principio della certezza del diritto (su tale principio, v. quanto recentemente affermato nella sentenza SC Cridar Cons SRL, C-582/20, punto 38). Contrariamente, nel risolvere la prima questione, la CG ha imposto, seppur implicitamente, un limite al principio dell’autonomia procedurale dello Stato membro coinvolto, la Romania.

In particolare, la CG ha statuito che la direttiva 89/391, letta in combinato disposto con l’art. 47 della Carta e il principio di effettività, impedisce a una normativa nazionale di conferire autorità di cosa giudicata alle decisioni del giudice amministrativo relative alla qualificazione dell’intervento come «infortunio sul lavoro» e, di conseguenza, pregiudicare la prosecuzione del procedimento dinanzi al giudice penale. Tale limite opera, secondo la CG, laddove questa normativa interna, così come interpretata dalla propria Corte costituzionale, non consenta ai familiari del lavoratore, vittima dell’intervento, di essere ascoltati in qualsiasi procedimento, sia esso civile o penale, volto a qualificare l’evento come «infortunio sul lavoro». Pertanto, la CG ha chiarito che la normativa di cui all’art. 52 c.p.p., così come interpretata dalla Corte costituzionale romena, pregiudicherebbe, nel caso di specie, l’effettività del diritto dell’Unione.

Nell’affrontare la seconda questione, la Corte ha fatto ampio rinvio alla celebre sentenza RS (C-430/21) – l’ultima pronuncia della c.d. “saga romena” – per riaffermare l’obbligo dei giudici nazionali di discostarsi dalle valutazioni delle proprie Corti costituzionali qualora in contrasto con il diritto dell’UE (in tema v. R. Bercea e B. Selejan-Guțan, 2024).

In tale decisione, la CG ha chiarito, nell’ambito di un rinvio pregiudiziale previsto dall’art. 267 TFUE, che i giudici comuni devono avere la facoltà di disattendere una norma procedurale nazionale che impone loro di conformarsi all’interpretazione fornita dai giudici di grado superiore, qualora tale norma sia in contrasto con il diritto UE. Tale prassi giurisprudenziale trova fondamento nella pronuncia Düsseldorf Rheinmühlen (C-166/73), in cui la CG ha stabilito che la norma di diritto interno non può vincolare i tribunali ordinari al rispetto di valutazioni giuridiche di un giudice di grado superiore, quando queste siano in contrasto con il diritto UE. In tale sede, la CG ha precisato che tale norma nazionale non può privare i giudici comuni dal sollevare questioni pregiudiziali ai sensi dell’art. 267 TFUE. Di conseguenza, questi devono avere la facoltà di richiedere l’interpretazione pregiudiziale delle norme di diritto dell’Unione sulle quali vertono le valutazioni giuridiche esperite dal giudice superiore.

In linea con la prassi giurisprudenziale richiamata, la sentenza Elchinov (C-173/09) ha precisato che, per garantire la piena efficacia delle norme dell’Unione, il giudice di grado inferiore deve essere libero di poter disapplicare le disposizioni nazionali che impongano di seguire le interpretazioni giuridiche contrarie al diritto UE. Tale principio, ribadito nella sentenza RS, si applica anche nel caso in cui un giudice ordinario sia vincolato da una decisione della propria Corte costituzionale, qualora questa risulti incompatibile con il diritto dell’Unione (v. RS, cit., punto 76; analogamente Križan e altri, C-416/10, punti 70 ss.). Di conseguenza, la decisione RS ha definitivamente consacrato il ruolo dei giudici comuni nel garantire, attraverso il rinvio pregiudicabile ai sensi dell’art. 267 TFUE, l’efficacia del diritto UE (v., per un approfondimento, D. Gallo, 2022).

La sentenza Energotehnica si inserisce nel solco di tale giurisprudenza, confermando il ruolo centrale dei giudici nazionali nel garantire l’effettività del diritto dell’Unione. La CG, inoltre, ha ribadito il dovere di disattendere le norme procedurali nazionali che obblighino i giudici comuni a seguire le interpretazioni giuridiche non conformi al diritto dell’Unione. Tuttavia, tale orientamento (v. punti 61 e 62 della sentenza) si basa su un vero e proprio “copy and paste” dei punti 75 e 76 della pronuncia RS, inseriti testualmente nel contesto della sentenza Energotehnica, senza considerare il valore giuridico o normativo eterogeneo dei passaggi richiamati (sulla definizione di “copy and paste” v. F-X. Millet, 2024, p. 7).

Alla luce di ciò, occorre rilevare tre differenze sostanziali della decisione Energotehnica rispetto a RS.

In primo luogo, il contesto fattuale distingue le due vicende processuali in questione dal momento che, in un caso, c’è il problema della durata eccessiva del procedimento penale a carico di RS e, nell’altro caso, si pone il tema dell’accertamento della responsabilità penale di MG per inosservanza delle norme in materia di SSL. La seconda differenza riguarda il rifiuto della Corte costituzionale romena a conformarsi ad una sentenza pregiudiziale della CG, circostanza che si verifica soltanto nella decisione RS. Come riconosciuto dalla CG nella prima questione, in Energotehnica l’eventuale preclusione dell’applicazione dei principi enunciati dalla direttiva 89/391 è attribuibile meramente a un’architettura procedurale interna, ai sensi del principio di autonomia procedurale. Infine, mentre la sentenza RS ricorre al rimedio della disapplicazione riprendendo la giurisprudenza precedente sul punto (in particolare, v. le pronunce AFJR,

C-83/19, C-127/19, C-195/19, C-291/19, C-355/19 e C-397/19, e Euro Box Promotion, C‑357/19, C‑379/19, C‑547/19, C‑811/19 e C‑840/19), la disapplicazione della norma procedurale è stato impiegato per la prima volta nel settore della SSL.

In tale contesto, la CG ha affrontato il tema della disapplicazione della normativa nazionale uniformandosi alla giurisprudenza consolidata in Poplawski II (C-573/17). Da una lettura testuale della pronuncia potrebbe emergere che la CG, nel rispondere al secondo quesito, abbia voluto conferire al primato un ruolo prioritario, o addirittura esclusivo, per consentire la disapplicazione. In particolare, la Corte ha dichiarato che «il principio del primato del diritto dell’Unione deve essere interpretato nel senso che esso osta alla normativa di uno Stato membro […]». Tuttavia, occorre constatare che, così come prosegue la CG, la disapplicazione di una norma nazionale avviene nel caso in cui le decisioni della Corte costituzionale romena «[…] violino i diritti che i singoli traggono dalla direttiva 89/391». Di conseguenza, dalla formulazione offerta dalla CG, seppur non particolarmente chiara laddove il conferimento di un diritto è implicitamente visto come sintomo dell’effetto diretto, si evince che la disapplicazione richiede la sussistenza tanto del primato quanto dell’effetto diretto della direttiva 89/391. Infatti, è imprescindibile che entrambi i principi – effetto diretto e primato – siano presenti nel caso di specie quali elementi costituivi del rimedio della disapplicazione. In tal senso, la decisione Energotehnica ha confermato, come più volte espresso da parte della dottrina,  che la disapplicazione è il risultato del coesistente rapporto tra l’effetto diretto di una norma UE e il principio del primato dell’Unione (approfondire il rapporto tra primato e effetto diretto, v. B. de Witte, 2011, p. 323; I. Anrò, J. Alberti, p. 78; D. Gallo, op. cit., 2025, in corso di pubblicazione, cap. 5).

In tale prospettiva, il ruolo dei giudici nazionali romeni viene esteso a “giudici decentrati” dell’ordinamento sovranazionale, posizione sancita sin dalle storiche sentenze Van Gend & Loos (26/62), Costa (6/64) e Simmenthal (106/77) (sul punto v. M. Bobek, 2017, p. 353 e D. M. Curtin, p. 709; sul ruolo del giudice comune v., in particolare, C. Amalfitano, 2020, p. 19). In particolare, la CG ha affermato che l’esercizio di tale rimedio non può pregiudicare il ruolo dei giudici nazionali quali giudici decentrati dell’ordinamento dell’Unione. Questi devono poter disattendere, come affermato al punto 67 della sentenza, le decisioni della propria Corte costituzionale, senza pericolo di essere sottoposti a un procedimento disciplinare, qualora ritengano che «tali decisioni violino i diritti che i singoli traggono dalla direttiva 89/391». In particolare, la CG ha riconosciuto senza ambiguità la capacità della direttiva di attribuire ai singoli dei diritti invocabili dinanzi ai giudici e tribunali amministrativi nazionali, il c.d. “effetto diretto soggettivo” (v. D. Gallo, op. cit., 2025, in corso di pubblicazione, cap. 4).

D’altra parte, si deve ammettere che tale riconoscimento è avvenuto senza che fosse stata dedicata un’attenta valutazione alla presenza/assenza degli elementi costitutivi dell’effetto diretto, una circostanza che, come affermato in dottrina, appare molto frequente nella giurisprudenza della CG (v., in particolare, S. Prechal, 2000, p. 1064; M. Bobek, 2023, p. 216; D. Gallo, op. cit., 2025, in corso di pubblicazione, cap. 5). In merito a ciò, appare opportuno considerare, in primo luogo, che l’incondizionatezza delle disposizioni della direttiva appare dubbia, poiché impone obblighi generali in materia di SSL diretti agli Stati membri, senza un regime di responsabilità oggettiva comune. In secondo luogo, la CG sembra aver trascurato qualsiasi ragionamento sull’impatto che la disapplicazione della norma procedurale potrebbe avere sul caposquadra e il datore di lavoro.

In tal senso, la prosecuzione del procedimento penale potrebbe determinare un solo effetto in malam partem nei confronti del datore di lavoro e del caposquadra, andando a pregiudicare i principi del legittimo affidamento e di certezza del diritto, discussi ampiamente nella c.d. “saga Taricco” e non solo (sulla saga Taricco e, in particolare, sul tema del riconoscimento dell’efficacia diretta dell’art. 325 TFUE, v. C. Amalfitano, 2016, pp. 7-19; F. Di Federico, 2018, pp. 3-7). In particolare, la disapplicazione della normativa nazionale romena consentirebbe, quale conseguenza, la continuazione del procedimento penale e, pertanto, garantirebbe la presentazione di ulteriori elementi di prova da parte dei familiari della vittima. A questo proposito, il mancato riconoscimento dell’autorità di cosa giudicata della sentenza amministrativa – e, dunque, la possibilità di prosecuzione del procedimento penale – potrebbe determinare l’accertamento della responsabilità, sia essa civile o penale, in capo al caposquadra e al datore di lavoro.

Il tema, dunque, risulta essere la necessità di un corretto bilanciamento fra il diritto dei familiari della vittima di essere ascoltati e i principi del legittimo affidamento e di certezza del diritto del datore di lavoro e del caposquadra. Da un lato, la disapplicazione della norma procedurale romena garantisce, quale conseguenza, l’effettività del diritto di essere ascoltati dei familiari della vittima tramite l’acquisizione di ulteriori elementi di prova nel procedimento penale. Dall’altro lato, tale disapplicazione implica la rivalutazione della responsabilità del datore di lavoro e del caposquadra nel procedimento penale, pregiudicando, nel caso, i principi sopra enunciati. Tuttavia, in relazione alla questione, occorre rilevare che la CG non ha riservato un’ampia analisi sul tema, trascurando gli effetti in malam partem che la sentenza potrebbe avere nei confronti del datore di lavoro e del caposquadra derivanti dalla disapplicazione della normativa nazionale romena.

Pertanto, a seguito della pronuncia della CG, la Corte d’Appello di Brașov potrebbe riconoscere a livello interno la responsabilità, sia essa civile o penale, come conseguenza diretta della disapplicazione della norma procedurale. In particolare, la sentenza della Corte di Appello potrebbe dichiarare – o meglio, contestare – l’efficacia in malam partem della disapplicazione della norma procedurale romena, enfatizzando il principio di certezza di diritto e di legittimo affidamento coerentemente con la prassi precedente. In alternativa, i giudici nazionali potrebbero appellarsi al principio garantista della presunzione di innocenza, sostenendo che la disapplicazione non comporta necessariamente effetti pregiudizievoli diretti sulla sfera giuridica del datore di lavoro o del caposquadra. A tal riguardo, la Corte d’Appello di Brașov potrebbe sostenere la necessità di un bilanciamento fra il diritto dei familiari della vittima di essere ascoltati e il principio della certezza di diritto del datore di lavoro e del caposquadra. In tal senso, la prosecuzione del procedimento si renderebbe essenziale a garantire l’effettività del diritto di ascolto dei familiari della vittima.

In questa cornice tematica, la sentenza Energotehnica potrebbe inserirsi nella giurisprudenza della CG sul tema della “triangolazione” dell’effetto diretto, in particolare, con riferimento alle direttive (sull’effetto diretto delle direttive, v. R. Schütze, 2023). In generale, tale effetto si riferisce alla situazione per cui una controversia tra un privato e lo Stato produce, come conseguenza diretta, implicazioni sulla situazione giuridica di un soggetto terzo privato (in proposito, v. D. Gallo, op. cit., 2025, in corso di pubblicazione, cap. 5). Nel caso di specie, il procedimento penale ha avuto luogo a seguito delle indagini svolte dal pubblico ministero, rappresentante degli interessi dello Stato, nei confronti di un soggetto privato, il caposquadra, ossia l’eventuale soggetto responsabile penale per la morte del lavoratore dipendente. In tale contesto, il riconoscimento dell’efficacia diretta delle disposizioni della direttiva 89/391 determinerebbe la possibilità di procedere all’accertamento della responsabilità penale e civile del caposquadra, nonché civile del datore di lavoro, soggetto terzo al procedimento penale. Alla luce della dimensione soggettiva, la statuizione della CG potrebbe comportare la conseguenza per cui anche le direttive potrebbero creare obblighi diretti per le persone fisiche e giuridiche, nonostante – ai sensi dell’art. 288 TFUE – tali atti impongano degli obblighi diretti unicamente agli Stati membri.

D’altra parte, la CG ha più volte vietato l’effetto diretto verticale invertito nelle sue decisioni in cui l’autorità pubblica, nel corso di un procedimento giudiziario interno, ha invocato disposizioni di direttive che, se attuate, avrebbero causato conseguenze negative per persone imputate in procedimenti penali (in tal senso, si vedano le sentenze Kolpinghuis, 80/86, X, C-74/95 e C-129/95; Tombesi, C-304/94, C-330/94, C-342/94 e C-224/95; Berlusconi, C-387/02, C-391/02 e C-403/02). La conclusione era stata, quindi, che le direttive dell’UE non potrebbero avere, «indipendentemente dal diritto interno di uno Stato, l’effetto di determinare o aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni» (Pretore di Salò, 14/86, punto 18).

Al contrario, nella recente sentenza Infraestruturas de Portugal SA (C-66/22), la CG ha ammesso la possibilità che l’art. 57, par. 4, della direttiva 2014/24 sugli appalti pubblici possa essere invocato da un ente pubblico nei confronti di un soggetto privato, con ripercussioni negative per un terzo individuo. In particolare, l’art. 57, par. 4, è specificamente finalizzato a consentire alle autorità aggiudicatrici – ovvero le entità all’interno del settore pubblico nazionale – di valutare l’integrità e l’affidabilità di ciascuno degli operatori economici partecipanti a una procedura di appalto pubblico. La CG ha confermato che, nonostante la direttiva non fosse stata correttamente recepita a livello nazionale, il ricorrente poteva invocarla contro lo Stato, con potenziali effetti dannosi anche per altre imprese coinvolte (v. il commento di A. Sanchez-Graells). In tale contesto, nella decisione Infraestruturas de Portugal SA, la CG ha riconosciuto la possibilità di vantare diritti soggettivi delle autorità aggiudicatrici nazionali, affermando che «la scelta circa la decisione se escludere o meno un operatore economico da una procedura di appalto pubblico per uno dei motivi previsti da tale disposizione spetta all’amministrazione aggiudicatrice». In tal senso, la sentenza Energotehnica potrebbe inserirsi, almeno ipotizzando le possibili conseguenze della pronuncia, nella prassi relativa al riconoscimento dell’effetto diretto nelle situazioni triangolari. Tuttavia, tale cambio di paradigma sembra venire meno nelle argomentazioni della CG, in quanto questa non ha confermato, in termini espliciti, la linea giurisprudenziale sviluppata in Infraestruturas de Portugal SA, in particolare in un settore diverso dagli appalti pubblici qual è quello della politica sociale.

Ciononostante, con la sentenza Energotehnica, la disapplicazione della normativa romena legittima il giudice penale a non attribuire autorità di cosa giudicata alla decisione del giudice amministrativo, in deroga all’art. 52 c.p.p, creando un’erosione del principio della res judicata. Tale impostazione trova riscontro nella prassi giurisprudenziale sviluppata nella sentenza Lucchini (C-119/05), ai par. 49 e 59, in cui la disapplicazione di una sentenza definitiva è stata impiegata in un settore di competenza esclusiva, gli aiuti di Stato (sul principio della res judicata v. A Turmo, 2021, p. 361 e A. Kornezov, 2014, p. 809). Nel caso Energotehnica, analogamente, la Corte ha confermato la possibilità di disapplicare una norma procedurale nazionale anche quando ciò implichi la limitazione della portata applicativa di principi interni, quali l’autonomia procedurale e la res judicata. Ne deriva che la regola Lucchini (su cui, per tutti, A. Biondi, 2008), disposta in un’area di competenza esclusiva del diritto dell’UE, è stata trapiantata in un nuovo contesto di competenza concorrente, la politica sociale.

In conclusione, la sentenza Energotehnica si aggiunge alla tortuosa giurisprudenza della CG sul complesso rapporto tra primato e effetto diretto in tema di disapplicazione (v. sul punto P. Pescatore, 2015, p. 135). La Corte ha riconosciuto la capacità delle disposizioni della direttiva 89/391 di attribuire diritti ai singoli, rectius, in virtù anche dell’effetto diretto. Ne consegue che, in linea con la sentenza RS e in virtù del principio del primato del diritto UE, i giudici comuni devono provvedere alla disapplicazione della norma nazionale coinvolta, disattendendo l’interpretazione offerta dalla Corte costituzionale romena, qualora ritengano che tali decisioni siano in contrasto con il diritto UE. L’esercizio di tale obbligo, come chiarito dalla CG, vieta l’imposizione di qualsiasi conseguenza sanzionatoria in capo ai giudici nazionali che valutino la conformità del diritto interno, come anche interpretato dalla Corte costituzionale, al diritto UE.

In tal senso, la sentenza Energotehnica si pone in linea con la giurisprudenza precedente della CG in tema di efficacia delle sentenze delle Corti costituzionali, sebbene, come scritto supra, la sentenza ponga molteplici quesiti quanto a disapplicazione in malam partem e all’erosione della res judicata in un ambito rientrante nella competenza concorrente tra Unione e Stati.

Ciò detto, il reale apporto innovativo della decisione alla prassi precedente, la c.d. “saga romena”, sembra rinvenirsi nella trasposizione del principio di effettività del diritto dell’UE nel contesto della SSL. Tale prassi, consolidata nella giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, è presente sin dalla famosa trasposizione del principio della mutua fiducia dal mercato interno (come affermato dalla CG nella celebre sentenza Cassis de dijon, 120/78) al diritto di asilo (in particolare, nella sentenza NS, C-411/10 e C-493/10). Al riguardo, si ritiene che la CG avrebbe potuto riservare una maggiore ponderazione degli interessi in gioco: il diritto a un ricorso effettivo dei familiari della vittima e i principi di legalità e certezza di diritto a tutela del caposquadra e del datore di lavoro. Tale ponderazione avrebbe potuto attribuire maggiore rilievo alle specificità normative del contesto della SSL, quale la distinzione tra obbligo e responsabilità oggettiva del datore di lavoro.

Sarà, pertanto, necessario valutare come la Corte d’appello di Brașov – chiamata a riesaminare la questione alla luce della disapplicazione della norma nazionale – interpreterà il bilanciamento fra autonomia procedurale e diritti fondamentali. Come accennato, qualora venga accertata una responsabilità, civile o penale, la Corte d’Appello di Brașov potrebbe, dapprima, concepire tale riconoscimento come conseguenza diretta della disapplicazione e, dunque, contestare i principi di certezza di diritto e legittimo affidamento. In particolare, la rivalutazione dell’intervento come infortunio sul lavoro nel procedimento principale potrebbe determinare il riconoscimento di una responsabilità penale in capo a MG e, di conseguenza, un obbligo di risarcimento danni in capo a questo e il datore di lavoro. Dall’altro lato, il principio garantista della presunzione di innocenza sino a condanna definitiva potrebbe legittimare una maggiore ponderazione a favore della tutela del diritto a un ricorso effettivo, ai sensi dell’art. 47 della Carta, indipendentemente dall’esito dall’accertamento della responsabilità. Come affermato dall’AG Rantos, al par. 49 delle sue conclusioni, «un procedimento penale non può essere considerato, per definizione, più favorevole alla vittima e/o alle parti civili rispetto a un procedimento amministrativo dal momento che […] ogni imputato è considerato innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata».