Doppia pregiudizialità in materia penale: il giudice resta libero di disapplicare le pene sproporzionate (ma la Corte preferirebbe di no)
Corte Cost., 4 febbraio 2025, n. 7
Double préjudicialité en matière pénale : le juge reste libre de laisser inappliquées les peines disproportionnées (mais la Cour préférerait que non)
“Dual Preliminarity” in Criminal Matters: the Judge Remains Free to Disapply Disproportionate Penalties (but the Court Would Rather Not)
La doppia pregiudizialità in materia penale dopo NE tra sindacato accentrato e diffuso
Con la sent. n. 7 del 2025 la Corte costituzionale si è pronunciata, per la prima volta dal riconoscimento dell’effetto diretto dell’art. 49 CdFUE1, su un caso di doppia pregiudizialità in materia penale.
La decisione era attesa soprattutto per vedere che postura avrebbe adottato la Corte rispetto alla possibilità di disapplicare una norma penale contrastante con il principio europeo di proporzionalità delle pene2, specialmente dopo i dubbi avanzati in letteratura sulla compatibilità di tale rimedio, in questo specifico ambito ordinamentale, con i principi costituzionali di legalità, separazione dei poteri e uguaglianza3.
Alla fine, però, pur riconoscendo che la disapplicazione può effettivamente entrare in tensione con questi principi, la Corte ha comunque affermato che, anche per la materia penale, vale il suo orientamento generale in base al quale in casi di doppia pregiudizialità che hanno tono costituzionale «il giudice italiano ha sempre – accanto alla possibilità di disapplicare, nel caso concreto, la legge nazionale […] – l’ulteriore possibilità di sollecitare l’intervento [del giudice costituzionale]» e «spetta [al giudice comune] il compito di individuare il rimedio di volta in volta più appropriato» (cons. dir. n. 2.2.2). In altre parole, il collegio ha deciso di evitare di aprire un fronte di scontro con la Corte di giustizia, proseguendo la propria politica di ri-accentramento4 attraverso il solo soft power, ossia lasciando formalmente liberi i giudici di disapplicare, ma cercando anche, al tempo stesso, di spingerli a non farlo5.
Dopo aver ricostruito il caso deciso dalla sent. n. 7 del 2025 e chiarito i termini della sua motivazione, soprattutto rispetto all’ammissibilità della questione relativa all’art. 49 CdFUE, presenterò alcuni argomenti per cui penso che, in realtà, il nostro sistema giuridico potrebbe beneficiare di un certo grado di resistenza dei giudici comuni alle gentili spinte riaccentratrici della Corte costituzionale.
Il caso in sintesi: rinvio dalla Cassazione su una confisca punitiva sproporzionata, già disapplicata dalla Corte d’appello
L’oggetto della questione di costituzionalità era l’art. 2641 c.c. nella parte in cui prevedeva la confisca obbligatoria, anche per equivalente, dei beni utilizzati per commettere uno dei reati previsti nel Tit. XI (Disposizioni penali in materia di società e di consorzi).
In applicazione di tale norma, il Tribunale di Vicenza aveva disposto a carico di alcuni condannati per aggiotaggio, ostacolo alle funzioni di vigilanza e falso in prospetto la confisca di 963 milioni di euro, quale equivalente del denaro utilizzato per la commissione dei reati (corrispondente all’ammontare dei finanziamenti concessi dall’istituto di credito a terzi per l’acquisto di titoli dell’istituto stesso al fine di alterarne il prezzo e creare una falsa rappresentazione del patrimonio di vigilanza).
La Corte d’appello aveva successivamente revocato le confische, ritenendo la somma manifestamente sproporzionata rispetto al disvalore degli illeciti, già puniti con le pene detentive, anche in considerazione del fatto che i condannati non avevano tratto alcun profitto dai reati e che l’art. 2641 c.c. non permetteva di graduare la misura della pena accessoria alla gravità della condotta. Invece che sollevare una questione di costituzionalità sulla base legale delle confische sproporzionate, il giudice d’appello ha tuttavia ritenuto di poterla direttamente disapplicare in forza dell’effetto diretto dell’art. 49 CdFUE.
Contro tale decisione è però ricorso il Procuratore generale, lamentando, tra l’altro, una violazione degli artt. 25 e 101 Cost., che avrebbero ostato alla disapplicazione. Seguendo lo schema utilizzato in Taricco6, il Procuratore sollecitava la Cassazione a domandare alla Corte di giustizia un chiarimento sulla portata della sentenza NE per sapere se, in base a tale decisione, la normativa nazionale dovesse essere disapplicata «anche quando tale risultato, in assenza di una base legale sufficientemente determinata, finisca, in violazione del principio di legalità e di separazione dei poteri, per attribuire al giudice valutazioni discrezionali in tema di politica criminale, rimesse dalla nostra Costituzione al legislatore» (rit. fatto n. 1.1).
La Cassazione condivide queste argomentazioni, ma preferisce rivolgersi direttamente alla Corte costituzionale dato che, anche a seguito di un ipotetico rinvio alla Corte di giustizia in cui fosse stata riconosciuta la non applicabilità della regola NE, sarebbe comunque rimasto il problema della necessità di applicare una pena manifestamente sproporzionata7. A prescindere dunque dall’efficacia diretta dell’art. 49 CdFUE nel caso di specie, la Cassazione solleva una questione di legittimità sull’art. 2641 c.c. in riferimento agli artt. 3, 27, 42, 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1, Prot. 1, CEDU, nonché agli artt. 11 e 117 Cost. in relazione agli artt. 17 e 49 CdFUE.
La sent. n. 7 del 2025 accoglie la questione dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 2641 c.c. nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, anche per equivalente, dei beni utilizzati per commettere il reato e rimettendo al legislatore la valutazione se rintrodurre una misura di confisca punitiva facoltativa o graduabile rispetto alla gravità del fatto e alle condizioni economiche del condannato.
La politica del ri-accentramento: l’ammissibilità della questione relativa all’art. 49 CdFUE e le ragioni addotte a favore del sindacato accentrato sulla costituzionalità delle pene
Per il tema dei rapporti tra Corte costituzionale e Corte di giustizia, il profilo dirimente della decisione è naturalmente l’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale riferita all’art. 49 CdFUE.
In passato, difatti, la Corte avrebbe ritenuto inammissibile una questione sollevata in riferimento a una norma UE con effetti diretti (secondo la logica per cui la non applicabilità della norma interna determina l’irrilevanza della questione). Negli ultimi anni, tuttavia, la giurisprudenza costituzionale è notoriamente evoluta nel senso di ritenere ammissibili le questioni in cui il contrasto riguardi, oltre a una norma UE direttamente efficace volta a tutelare un diritto fondamentale, anche un parametro costituzionale interno8. Nella sent. n. 181 del 2024 l’ammissibilità è stata da ultimo legata, più in generale, al “tono costituzione” della questione. Nonostante i dubbi manifestati in letteratura sulla portata di questo requisito9, esso mi sembra indicare chiaramente la volontà della Corte di non limitare più l’ammissibilità di questioni sollevate su norme interne che confliggono anche con norme UE direttamente efficaci ai soli casi riguardanti diritti soggettivi costituzionalmente tutelati, ma di estenderla anche a quelli riguardanti principi di diritto costituzionale oggettivo. In altre parole, se la norma UE con effetto diretto non interseca alcun diritto o principio costituzionale interno, l’unico rimedio percorribile è la disapplicazione; se no, il giudice resta libero di scegliere tra disapplicazione e questione di costituzionalità.
Nella sent. n. 7 del 2025, del resto, l’ammissibilità discende proprio dal fatto che l’art. 2641 c.c. confligge non solo con l’art. 49 CdFUE, ma anche con il principio di proporzionalità della pena che, tradizionalmente, è considerato un principio di diritto costituzionale oggettivo con fondamento negli artt. 3 e 27 Cost..
Di quest’ultima svolta giurisprudenziale sono state proposte letture europeistiche, nel senso che essa sarebbe giustificata dalla volontà della Corte di fornire il più forte rimedio dell’annullamento a più violazioni del diritto UE possibili nella logica delle “tutele sempre più integrate”10. Anche se un po’ più ciniche, continuano a sembrarmi comunque più convincenti quelle letture che riconducono il superamento del vecchio orientamento a una volontà della Corte di riaccentrare il sindacato sulla validità delle leggi per non rimanere esclusa, nel lungo periodo, dal circuito di definizione delle politiche costituzionali dei giudici11. Nella letteratura costituzionalistica, d’altronde, sono già state fornite varie valide ragioni in favore del recupero di un ruolo di maggiore centralità per le Corti costituzionali nazionali nel processo di integrazione europea12.
Anche la sent. n. 7 del 2025 conferma che a muovere la Corte non sono solo preoccupazioni di garantire una maggior tutela al primato del diritto UE.
In primo luogo, infatti, anche in quest’ultima pronuncia è richiamata la necessità «che le corti costituzionali e supreme nazionali possano “contribuire, per la propria parte, a rendere effettiva la possibilità, di cui ragiona l’art. 6 del TUE […] che i […] diritti fondamentali garantiti dal diritto europeo […] siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri”» (cons. dir. n. 2.2.2).
In secondo luogo, la Corte ripete ancora le ragioni di preferibilità del sindacato accentrato, individuate, sin dalla sent. n. 269 del 2017, nella portata erga omnes delle proprie sentenze e nella conseguente maggior certezza del diritto. Di queste ragioni generali, finora addotte per la materia dei diritti fondamentali, la sent. n. 7 del 2025 offre una specifica declinazione penalistica. La Corte sottolinea in particolare come la disapplicazione (totale o parziale) di una pena si porrebbe infatti «in tensione» con il principio di legalità penale che richiede una predeterminazione legale delle pene adeguata a 1) consentire ai singoli di formulare previsioni ragionevolmente affidabili sulla loro applicazione, 2) assicurare il più possibile la parità di trattamento e 3) limitare la discrezionalità giudiziaria conformemente al principio di separazione dei poteri. La Corte sottolinea inoltre che, allo stato, solo la dichiarazione d’incostituzionalità permette di revisionare le condanne definitive ai sensi degli artt. 673 c.p.p. e 30, Legge 11 marzo 1953, n. 87 (cons. dir. n. 2.2.3).
A fronte di un discorso costituzionale impostato in questo modo sarà senz’altro vero che «al giudice comune spetta […] il compito di individuare il rimedio di volta in volta più appropriato» (cons. dir. n. 2.2.2) e, dunque, che il giudice italiano resta libero di disapplicare le pene sproporzionate, ma è anche innegabile che, nella sostanza, si crei al contempo una forte pressione istituzionale a non farlo13.
Per un’autentica libertà di scelta del giudice caso per caso: alcune ragioni a favore del sindacato diffuso europeo
Nonostante la perentorietà della Corte, ci sono in realtà anche alcune ragioni a favore della disapplicazione, che un giudice comune chiamato a decidere quale rimedio attivare in un determinato caso dovrebbe seriamente considerare, anche in materia penale14.
Queste ragioni sono connesse a limiti strutturali del sistema di giustizia costituzionale italiano, di cui il collegio presenta soltanto i vantaggi di maggiore certezza e uguaglianza (effettivamente garantibili, in sistemi a sindacato diffuso, solo attraverso l’attività nomofilattica delle magistrature di vertice).
Nel nostro sistema, anzitutto, il sindacato di costituzionalità mantiene sempre un certo grado di astrattezza. Questo può risultare piuttosto limitante quando – come nel caso di specie – si ha a che fare con pene caratterizzate da afflittività disuguale, la cui proporzionalità dipende, cioè, in larga misura dalla situazione di fatto dello specifico condannato (tipicamente per le pene economiche dalle sue condizioni sociali).
Ben conscia di questo, la stessa Corte riconosce più volte l’importanza di una valutazione della proporzionalità in concreto («[l’art. 2641 c.c.] vincola il giudice ad applicar[e la confisca] anche quando, nel caso concreto, essa risulti manifestamente sproporzionata»; «nel diritto comparato e nel diritto dell’Unione europea […] la confisca […] è di regola subordinata a una valutazione di compatibilità della sua inflizione, nel caso concreto, con il principio di proporzionalità») (cons. dir. n. 3, corsivi aggiunti). Addirittura, la motivazione richiama il sistema statunitense, in cui, in base a una case law «formata[si] proprio con riferimento a casi di confische […] per i quali è particolarmente frequente che la loro radicale ablazione possa risultare nel caso concreto sproporzionata», «spetta […] al giudice assicurare che la confisca non si risolva per l’interessato in un pregiudizio patrimoniale eccessivo» (cons. dir. n. 3.4.1, corsivi aggiunti).
Solo il sindacato diffuso basato sull’effetto diretto dell’art. 49 CdFUE consente oggi, seppur nel limitato ambito d’applicazione del diritto UE, di condurre un simile scrutinio anche in Italia.
La stessa portata erga omnes dell’accoglimento, poi, può costringere a soluzioni rigide e inutilmente impattanti sulla discrezionalità legislativa.
Anche di questo limite strutturale la sent. n. 7 del 2025 è, paradossalmente, un buon esempio. Accertato che l’obbligatorietà della confisca «vincola il giudice ad applicare la misura ablativa anche quando, nel caso concreto, il suo impatto risulterebbe sproporzionato» (cons. dir. n. 4, corsivo aggiunto) ed è, pertanto, incostituzionale, la Corte deve decidere che tipo di sentenza adottare. Giudicando troppo manipolativo trasformare la confisca in facoltativa, opta per un’ablativa secca, che, in questo caso, è ammissibile perché non conduce a “insostenibili vuoti di tutela” (restano infatti ferme le pene principali, la confisca, anche per equivalente, del profitto e la confisca diretta dei beni strumentali prevista dall’art. 240 c.p.).
In realtà, così facendo, la Corte elimina in tutti i casi una misura punitiva (confisca dei beni strumentali anche per equivalente), riducendo quindi il livello di capacità dissuasiva generale dell’ordinamento rispetto alla commissione di alcuni reati, quando sarebbe stato possibile disapplicarla nei soli casi in cui fosse risultata in concreto sproporzionata. Peraltro, in un ipotetico scenario in cui la giurisdizione comune avesse disapplicato l’art. 2641 c.c. in pressoché tutti i casi, il legislatore sarebbe stato ugualmente sollecitato a intervenire per la sua modifica. La differenza è che, nei possibili casi in cui l’applicazione non sarebbe risultata sproporzionata, essa non può essere più applicata per la dichiarazione d’incostituzionalità, con la conseguenza che la tutela dei beni protetti dai reati previsti dal Tit. XI c.c., certo, non è stata annullata, ma risulta comunque ingiustificatamente indebolita15.
Evidenziando questi possibili vantaggi di maggior concretezza e tutela della discrezionalità legislativa, non voglio sostenere che la disapplicazione rappresenti sempre il rimedio migliore o che non abbia, a sua volta, limiti e rischi intrinseci. Da un lato, la dichiarazione d’incostituzionalità è senz’altro il rimedio più adeguato per i casi in cui la sproporzione è di natura astratta perché attinente, per esempio, a un minimo edittale in sé eccessivo rispetto alla gravità dell’illecito[16]. Dall’altro, l’assenza di uno strumento di riapertura del giudicato per violazione dell’art. 49 CdFUE come quello previsto per la dichiarazione d’incostituzionalità è effettivamente un problema che dovrà essere affrontato (come, comunque, è stato già fatto per le condanne emesse in violazione della CEDU, prima in via interpretativa dai giudici comuni, poi dalla Corte e infine dal legislatore).
Il punto è solo che ci sono modi di impostare il discorso costituzionale sul concorso di rimedi contro le pene eccessive, alternativi a quello scelto dalla sent. n. 7 del 2025, entro cui la necessità di assicurare un ruolo alle Corti costituzionali in un’Unione sempre più integrata può meglio conciliarsi con l’opportunità di garantire al principio di proporzionalità delle pene una tutela più elevata di quanto il nostro ordinamento nazionale può, da solo, assicurare.
1 Corte giust., Grande sez., 8 marzo 2022, causa C-205/20, NE, ECLI:EU:C:2022:168.
2 V. M. Lanotte, La disapplicazione della sanzione nell’ordinamento italiano dopo la sentenza NE: una nuova questione di doppia pregiudiziale?, in questa Rivista, 2025.
3 V. F. Viganò, La proporzionalità della pena tra diritto costituzionale italiano e diritto dell’Unione europea: sull’effetto diretto dell’art. 49, paragrafo 3, della Carta alla luce di una recentissima sentenza della Corte di giustizia, in Sistema penale, 2022; M. Lanotte, La proporzionalità della sanzione: un principio ritrovato? Note a margine della sentenza NE, in Quaderni AISDUE, 2023, p. 388 ss.; M. Pelissero, Il principio di proporzionalità (non sproporzionalità) delle pene: recenti sviluppi e impatto anomalo delle fonti eurounitarie sul principio di legalità delle pene, in Diritto Penale e Processo, 2023, p. 1372 ss.
4 V. su questa stagione di attività della Corte D. Tega, La corte nel contesto. Percorsi di ri-accentramento della giustizia costituzionale in Italia, Bologna, 2020.
5 In letteratura, anticipava la strategia del ri-accentramento non autoritativo ma attraverso «l’autorevolezza del proprio operare» N. Recchia, La proporzione sanzionatoria nella triangolazione tra giudici comuni, Corte costituzionale e Corte di Giustizia, in Quad. cost., 2022, p. 893 sulla scia di F. Viganò, La tutela dei diritti fondamentali della persona tra corti europee e giudici nazionali, in Quad. cost., 2019.
6 Corte cost., 26 gennaio 2017, ordinanza n. 24, ECLI:IT:COST:2017:24, su cui, tra molti, v. C. Amalfitano (a cura di), Primato del diritto dell’Unione europea e controlimiti alla prova della saga Taricco, Milano, 2018.
7 Cfr. Cass., V sez. pen., 27 febbraio 2024, ordinanza n. 8612, ECLI:IT:CASS:2024:8612PEN, diritto n. 4.
8 Per una ricostruzione di quest’evoluzione, che condivido appieno, v. B. Sboro, Sindacato accentrato e doppia pregiudiziale di «impatto sistemico» dal «tono costituzionale». Note a margine di Corte cost., sent. n. 181/2024, in questa Rivista, 2025.
9 V., ad es., S. Barbieri, La sentenza n. 181 del 2024 della Corte costituzionale: una svolta nei rapporti tra ordinamento italiano e diritto dell’Unione europea?, in questa Rivista, 2024 e R. Mastroianni, La sentenza della Corte costituzionale n. 181 del 2024 in tema di rapporti tra ordinamenti, ovvero la scomparsa dell’articolo 11 della Costituzione, in Quaderni AISDUE, 2025, p. 9 ss.
10 V. A. Chiappetta, “Sarà il giudice a scegliere il rimedio più appropriato”: l’inciso definitivo della Corte costituzionale tra sindacato accentrato di costituzionalità e meccanismo diffuso di attuazione del diritto UE, in Federalismi, 2025, p. 63 ss. e spec. 104.
11 Sul ruolo delle corti costituzionali nella forma di governo v. A. Morrone, Corte costituzionale: fattore condizionante o elemento strutturale?, in Rivista AIC, 2024.
12 V., ad es., A. Barbera, La Carta dei diritti: per un dialogo fra la Corte italiana e la Corte di giustizia, in Rivista AIC, 2017, e, per una posizione ancora più pro ri-accentramento, F. Medico, Il doppio custode. Un modello per la giustizia costituzionale europea, Bologna, 2023.
13 Sull’opportunità di lasciare alla Corte la prima parola v. N. Canzian, Una nuova pronuncia sulla proporzionalità delle pene: analogie e differenze fra le prospettive europea e italiana, in Quad. cost., 2024, p. 218.
14 Ho cercato di esplicitarne alcune già in P.F. Bresciani, Contro le pene eccessive: al rimedio costituzionale si aggiunge la disapplicazione europea, in Quad. cost., 2022, p. 637 ss. Anche A. Ruggeri, Verso l’obbligatorietà del sindacato accentrato sulle questioni di “eurounitarietà-costituzionalità” in materia penale? (A prima lettura di Corte cost. n. 7 del 2025), in ConsultaOnline, 2025, p. 146 ss. afferma che nella sentenza sono «celati i pregi insiti nel sindacato diffuso».
15 Al riguardo, nemmeno l’argomento della revoca del giudicato appare troppo convincente in relazione alle pene pecuniarie dato che l’effetto retroattivo della dichiarazione d’incostituzionalità trova un limite nei rapporti esauriti, come in genere si considerano, pur discutibilmente, le pene interamente eseguite (v. in questo senso sent. n. 68 del 2021).
16 V., ad es., Corte giust., 19 ottobre 2023, causa C-655/21, G.S.T.T., ECLI:EU:C:2023:791.